Sfiancati, umiliati, terrorizzati, spesso brutalizzati. Uomini, donne e bambini che attraversano il deserto alla caparbia ricerca di una speranza dove annodare la propria esistenza e il cui grido di dolore si avverte solo quando è una tragedia a concretizzarne la portata. Guerra, fame, disperazione da un lato, interessi economici, indisponibilità all’accoglienza e tanta ipocrisia dall’altro; due facce di una stessa medaglia in cui in gioco è la dignità umana, il diritto a vivere la vita, il diritto di difendere il proprio essere nel mondo e non lasciare che violenza, fame e sopraffazione la distruggano deliberatamente.
Le voci che gridano nel deserto interpellano tutti: politici, religiosi, gente di rango e gente umile; sono gridi senza voce, inariditi dallo sconforto, soffocati dall’ingiustizia, mortificati dall’indifferenza dei più.
Eppure sono migliaia le Vie Crucis itineranti nel deserto, moderni esodi in bilico su quella linea di confine che divide l’umano dal disumano, quella linea di demarcazione che appare sempre più netta e assoggettata ad un tangibile disinteresse collettivo.
Nel Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2015 Papa Francesco scrive: “Il coraggio della fede, della speranza e della carità permette di ridurre le distanze che separano dai drammi umani. Gesù Cristo è sempre in attesa di essere riconosciuto nei migranti e nei rifugiati, nei profughi e negli esuli, e anche in questo modo ci chiama a condividere le risorse, talvolta a rinunciare a qualcosa del nostro acquisito benessere”.
E’ una dato di fatto, comunque, che Il termine rinuncia appare ostico all’attuale civiltà dei consumi. Oggi non si rinuncia più a niente e tutto sembra dovuto: felicità, benessere, salute, sicurezza economica, prestigio personale.
Ma per un cristiano, per un vero discepolo di Gesù, la carità, l’accoglienza, l’ascolto, la comprensione, il non ragionare per stereotipi, il non conformarsi alla mentalità del tempo, l’andare oltre il futile, oltre ciò che non è strettamente necessario, rappresentano aspetti indispensabili per aderire in modo coerente a quanto scritto nel Vangelo, lasciando spazio a quel senso di carità e amore nei confronti del prossimo così come lo chiede Gesù: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi… ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 35-41). A volte si pensa di aiutare qualcuno senza però accoglierlo pienamente. Accogliere il povero, il sofferente, l’immigrato, il recluso significa infatti, fargli spazio nel proprio tempo, nella propria amicizia, nella propria città e nelle proprie leggi. La carità è molto più impegnativa di una beneficenza occasionale: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di un gesto.
Le “anestesie mentali” praticate dall’edonismo contemporaneo, da una cultura utilitarista e consumistica come quella in cui viviamo, conducono inevitabilmente l’uomo a scindere la sua umanità dalla sua esistenza e a rimanere braccato in una mancanza di identità che, non di rado, sfocia nella disperazione. L’uomo ha bisogno di riflettere e interrogarsi continuamente sulle grandi domande di sempre, quelle domande a cui nessun essere umano, dotato di un minimo di buon senso, può sottrarsi.
Il filosofo e saggista rumeno Emil Cioran diceva che: “L’uomo non vive più nell’ esistenza, ma nella teoria dell’esistenza”. Oggi diventa urgente riscoprire quei valori che rendono autentica la solidarietà e non la riducono ad un buonismo ipocrita fatto solo di parole vuote e di falsi buoni propositi. Dobbiamo vivere l’esistenza in pratica e non in teoria.
Le grida che oggi ci giungono dai nuovi deserti rappresentati dai campi profughi, dai centri di prima accoglienza, dalle frontiere intasate di disperazione, devono ricordarci che Cristo è presente in quei luoghi e attende paziente un segno concreto di ospitalità, di ascolto, di gentilezza, di solidarietà, di amore, gesti che siano una pura e semplice espressione di cuori autenticamente compassionevoli.
(Felice Di Giandomenico)