Francesco canonizza la prima santa argentina Mama Antula, alla presenza di migliaia di connazionali e del presidente Milei che saluta prima e dopo la celebrazione. Nell’omelia il Pontefice osserva che oggi ci sono tante “barriere da abbattere” e mette in guardia dalle “cancrene” dell’anima, come indifferenza e paura. Quindi invita a riscoprire “la gioia di donarci agli altri, liberi da forme di religiosità anestetizzanti e prive della carne del fratello”

Quando prendiamo le distanze dagli altri per pensare a noi stessi, quando riduciamo il mondo alle mura del nostro “star bene”, quando crediamo che il problema siano sempre e solo gli altri… Attenzione, in quei casi si è in preda ad una malattia.  E la diagnosi è chiara: “lebbra dell’anima”, morbo “che ci rende insensibili all’amore, alla compassione, che ci distrugge attraverso le ‘cancrene’ dell’egoismo, del preconcetto, dell’indifferenza e dell’intolleranza”. La cura? Amare Dio e donarsi al prossimo “senza paure e pregiudizi” e senza “calcoli e convenienze”, “liberi da forme di religiosità anestetizzanti e prive della carne del fratello”.

Migliaia di fedeli in Basilica

La metafora della lebbra, alla luce dei brani proposti dalla liturgia odierna, fa da traccia all’omelia di Papa Francesco per la Messa, nella Basilica vaticana, per la canonizzazione di María Antonia de San José de Paz y Figueroa, quella che gli argentini ma anche tutti i devoti sparsi nel mondo meglio conoscono come Mama Antula. Prima santa argentina, vissuta nel XVIII secolo nell’epoca dell’espulsione della Compagnia di Gesù dal Paese, ha diffuso a Buenos Aires e in altre regioni la pratica degli Esercizi spirituali ignaziani, fondando case di spiritualità e facendo conoscere Dio alla gente, anche ai padri fondatori della Patria che la consideravano infatti una “mamma”.

Mama Antula proclamata Santa

Durante la Messa il prefetto del Dicastero per le Cause dei Santi, il cardinale Marcello Semeraro, legge la peroratio; quindi il Papa eleva agli onori degli altari Mama Antula, donna di azione e contemplazione, in mezzo a un fragoroso applauso di tutta l’assemblea. Di lei, Francesco ricorda la testimonianza, “in un contesto di miseria materiale e morale”, di servizio e dedizione al prossimo. Esattamente quello che – dice nell’omelia – è l’antidoto, anzi, la cura contro la “lebbra”, intesa non come la malattia fisica che comporta la progressiva distruzione del corpo ma la “lebbra dell’anima” che incancrenisce il cuore e si riversa sui più deboli.

Malattia ed emarginazione

Il Papa si sofferma sul Vangelo di Marco che racconta dell’incontro di Gesù con un lebbroso, abbandonato dai suoi concittadini che avevano paura di essere contagiati e che credevano che toccare una carne in putrefazione rendesse impuri. Un uomo ferito ulteriormente da allontanamento e rifiuto, quindi, a cui Cristo offre il suo “tocco” per guarirlo e per liberare tutti da un’idea religiosa distorta che “alza barriere e affossa la pietà”.

Paura, pregiudizio e falsa religiosità: ecco tre cause di una grande ingiustizia, tre “lebbre dell’anima” che fanno soffrire un debole, scartandolo come un rifiuto

Tante barriere da abbattere

L’emarginazione sperimentata da quel lebbroso si ripete ancora oggi. “Non pensiamo che siano solo cose del passato. Quante persone sofferenti incontriamo sui marciapiedi delle nostre città! E quante paure, pregiudizi e incoerenze, pure tra chi crede e si professa cristiano, e queste paure continuano a ferirle ulteriormente!”, esclama il Papa.

Anche nel nostro tempo c’è tanta emarginazione, ci sono barriere da abbattere, ‘lebbre’ da curare

“Cancrene”

Come farlo? Due i gesti indicati da Francesco, quelli compiuti da Gesù che ebbe compassione di quell’uomo. Il primo è “toccare”: il Figlio di Dio poteva guarire “a distanza” quella persona, invece ne tocca le ferite. È la “vicinanza di Dio” e la “via dell’amore che si fa vicino a chi soffre”. Chi segue Cristo è chiamato a fare lo stesso, vigilando “quando nel cuore si affacciano gli istinti contrari al suo ‘farsi vicino’ e al suo ‘farsi dono’”.

Ad esempio quando prendiamo le distanze dagli altri per pensare a noi stessi, quando riduciamo il mondo alle mura del nostro “star bene”, quando crediamo che il problema siano sempre e solo gli altri… In questi casi stiamo attenti, perché la diagnosi è chiara, è “lebbra dell’anima”: malattia che ci rende insensibili all’amore, alla compassione, che ci distrugge attraverso le “cancrene” dell’egoismo, del preconcetto, le “cancrene” dell’indifferenza e dell’intolleranza.

“Stiamo attenti anche perché, come per le prime macchioline di lebbra, che compaiono sulla pelle nella fase iniziale del male, se non si interviene subito, l’infezione cresce e diventa devastante”, ammonisce il Pontefice.

L’amore che rigenera

“Guarire” è allora il secondo gesto. Il “toccare” di Gesù non è solo vicinanza, ma l’inizio della guarigione. “La vicinanza è lo stile di Dio. Dio sempre è vicino, compassionevole, e tenero. Vicinanza, compassione, e tenerezza. Questo è lo stile di Dio. E noi siamo aperti a questo”, dice il Papa a braccio. “È lasciandoci toccare da Gesù che guariamo dentro, nel cuore”, prosegue. “Se ci lasciamo toccare da Lui nella preghiera, nell’adorazione, se gli permettiamo di agire in noi attraverso la sua Parola e i Sacramenti, il suo contatto ci cambia realmente, ci risana dal peccato, ci libera dalle chiusure, ci trasforma al di là di quanto possiamo fare da soli, con i nostri sforzi”.

Le nostre parti ferite – quelle del cuore e dell’anima nostra – le malattie dell’anima vanno portate a Gesù: la preghiera fa questo; ma non una preghiera astratta, fatta solo di formule da ripetere, bensì una preghiera sincera e viva, che depone ai piedi di Cristo le miserie, le fragilità, le falsità, le paure

Al “tocco” di Gesù, aggiunge il Papa, rinasce il meglio di noi stessi: “I tessuti del cuore si rigenerano; il sangue delle nostre spinte creative riprende a fluire carico di amore; le ferite degli errori del passato si rimarginano e la pelle delle relazioni ritrova la sua consistenza sana e naturale”. Ritorna così “la bellezza che abbiamo, la bellezza che siamo”. “Amati da Cristo – afferma il Pontefice -, riscopriamo la gioia di donarci agli altri, senza paure e senza pregiudizi, liberi da forme di religiosità anestetizzanti e prive della carne del fratello; riprende forza in noi la capacità di amare, al di là di ogni calcolo e convenienza”.

La carità nascosta di tutti i giorni

Mama Antula, “viandante dello Spirito”, è stata esempio di tutto questo: “Ha percorso migliaia di chilometri a piedi, attraverso deserti e strade pericolose, per portare Dio. Oggi è per noi un modello di fervore e audacia apostolica”, dice il Papa a conclusione dell’omelia. Ricorda poi che quando i gesuiti furono espulsi, “lo Spirito accese in lei una fiamma missionaria basata sulla fiducia nella provvidenza, e sulla perseveranza”. La santa invocò l’intercessione di San Giuseppe, e “per non stancarlo troppo” pure quella di San Gaetano Thiène, il fondatore della Congregazione dei Teatini, introducendone la devozione in Argentina. La sua prima immagine arrivò a Buenos Aires nel secolo XVIII.

Grazie a Mama Antula questo santo, intercessore della Divina Provvidenza, si fece strada nelle case, nei quartieri, nei trasporti, nei negozi, nelle fabbriche, e nei cuori, per offrire una vita dignitosa attraverso il lavoro, la giustizia, il pane quotidiano, sulla tavola dei poveri.