Mentre in Terra Santa continuano le violenze giunge l’accorato appello di Giovanni Paolo II affinché tacciano le armi, si evitino le provocazioni si riprenda la via del dialogo. “La Terra Santa – dice il Papa -deve essere la terra della pace e della fraternità. Così Dio vuole!”

 

Da due settimane mi trovo in Terra Santa, terra che ha visto nascere, crescere, soffrire e morire Nostro Signore Gesù Cristo. La storia continua, le guerre seminano altra sofferenza. “Molti ve l’ho già detto più volte, e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce” (Fil 1,18). Qui in Terra Santa, in questi giorni ce tanta sofferenza, tanto dolore, tanta paura e… nuovi pianti. La sofferenza non matura, di per sé, non agisce automaticamente.

Alessandro Pronzato, nel suo libro Gli appuntamenti con Dio, considera giustamente come “nella sofferenza l’uomo non è un soggetto sottoposto all’azione benefica – pur dolorosa – della Croce. Anche nella sofferenza l’uomo è soggetto che agisce, non semplicemente oggetto che subisce”. Dunque la sofferenza matura soltanto coloro che desiderano maturare, che collaborano alla sua azione, che partecipano con lucidità, intelligenza, con il cuore. In una parola, la sofferenza matura esclusivamente quelli che cooperano, ossia che operano con essa, in perfetta, anche se lacerante armonia. “Ho 18 anni, i capelli neri, gli occhi chiari e la rabbia nel sangue. Sono palestinese, cittadino di una terra ipotecata, una terra strappata ai miei nonni, una terra sognata, nato sotto una tenda in un campo dove nell’aria si respira il mal di testa dell’attesa e delle illusioni. Mi chiamo Mahmod, come il poeta, ma non sono né poeta né filosofo per coltivare pazienza e saggezza. Ho la rabbia negli occhi e non ho voglia di credere alle cose che non vedo, né alle parole degli uomini che per mestiere ci promettono la pace”. E lo sfogo amaro di un giovane, in una lettera pubblicata dal giornale. Così continua: “Credo a quello che vedo. Ciò che il mondo mi mostra è brutto. L’ingiustizia ha scelto una maschera, quella della bruttezza, della polvere delle pallottole che fischiano sopra le nostre teste. Ci parlano di Oslo. E un paese o una colomba? Non ne so niente. Forse è un sogno. Ma quale vita, quale sogno, quale pazzia mi posso permettere? Ho diciott’anni e una pesante memoria alle spalle: cinquanta-due anni di sofferenza. Vorrei ridere e ballare, cantare e studiare, avere problemi affettivi, discutere del colore del cielo e dei suoi riflessi sul mare. Vorrei vestirmi alla moda e ascoltare la musica di oggi. Vorrei litigare con la mia ragazza perché mi fa ingelosire e scriverle lettere d’amore. Ma non ho il tempo per l’amore. A Ramallah viviamo circondati da colonie dalle quali spuntano i fucili. Vorrei che mia madre fosse felice e indossasse un bel vestito azzurro, e buttasse via la tunica nera. Vorrei che mio padre non perdesse più il sonno perché non sa se l’esercito israeliano lo lascerà passare per andare a lavorare. Vorrei che le mie due sorelle si togliessero il velo e andassero all’università con il viso sereno e l’anima fiduciosa nell’avvenire. Quanto ai miei fratelli, vorrei semplicemente rivederli. Ali non lo rivedrò mai più. Sì, lo so, un proiettile vagante. No, non è stata una fitta raffica di mitra a ucciderlo. Mia madre è in lutto. Mio padre non si rade più. L’aria è irrespirabile. Soffochiamo. Abbiamo incubi nel sonno. E non vogliamo più sentire i discorsi di Arafat. Gli altri due fratelli sono in una prigione israeliana. Sono stanco di aspettare. Sono palestinese e non ho altro che pietre a portata della mia rabbia. Il tempo passa e ci ignora. La vita, la vera vita è altrove, lontano da queste colline, lontano da questi ulivi, lontano dalla nostra casa. Tra due anni avrò vent’anni. Sembra che sia l’età più bella. Non per noi. Noi non abbiamo più età. Abbiamo un destino pieno di buchi, lo non sono più giovane con un avvenire all’orizzonte. Non sono neanche sicuro che una pallottola non verrà a prendermi nella strada in cui lancio sassi. Sono un figlio dei campi e non vorrei invecchiare tra le pietre e le macerie. Non invecchierò. Con una fionda fermerò il tempo, farò scappare gli uccelli, farò indietreggiare le fila di poliziotti palestinesi e avanzerò verso i soldati israeliani che ci sparano addosso perché non abbiamo diritto di vivere”.

E una lettera che parla da sé e non ha bisogno di commento. Riflettiamo sul dolore di tante mamme che hanno perso i loro figli, sui quali avevano riposto tutta la loro speranza.

Pensiamo a 2000 anni fa quando Gesù, Figlio di Dio, fu crocifisso tra due ladroni, Lui l’innocente. Quanto è stato grande il dolore della Vergine addolorata ritta ai piedi della croce senza potere fare nulla per salvare il figlio. O Maria, Tu sei la Madre di ogni madre che soffre, sei la Madre di quanti piangono, Madre degli innocenti e dei prigionieri massacrati e torturati. Sei la Madre di ogni sofferente: di quei giovani militari trucidati, del figlio fucilato che non è più tornato a casa. Scorre il tempo e la storia continua.

A noi tocca pregare, invocare la pace e l’unità dei popoli. Pregare per tutte le mamme che aspettano, piangendo, il figlio, lo sposo…

Preghiamo Maria SS.ma, Madre di tutte le nostre speranze. Tu sei, o Maria, la stella radiosa di un popolo in cammino verso Dio; tu sei l’annuncio dell’Umanità trasfigurata, in Te confidiamo, in Te speriamo.