«(…) Che dobbiamo dunque fare, dirà qualcuno? E che altro se non avere cura dell’anima e trascurare tutto il resto? Non dobbiamo, per¬tanto, servire al corpo se non per assoluta necessità; bisogna, invece, dare all’anima ciò che abbiamo di meglio, liberandola, per mezzo della filosofia, dal carcere nel quale in certo modo si trova per la comunanza con le passioni del corpo e al tempo stesso cercando di rendere il corpo superiore alle passioni. Si deve dare al ventre il necessario, ma non quel che c’è di più squisito, come coloro che non pensano ad altro che a cercare imbanditori di mense e cuochi e vanno investigando per terra e per mare come se pagassero un tributo ad un difficile padrone.
Aver poi una cura eccessiva della propria capigliatura e degli abiti, è cosa, come dice Diogene, o da disgraziati o da delinquenti. E pro¬prio così. Essere ed avere il nome di bellimbusto io affermo che si deve reputare ugualmente turpe come l’essere impudichi o insidiare alle altrui nozze. Che differenza c’è, per chi ha senno, tra l’essere rivestito di una veste lussuosa o portare un mantello di poco prezzo, purché questo sia sufficiente difesa contro il freddo o contro il caldo? Quanto al resto si può dire lo stesso. Non bisogna cercare anche nelle altre cose, di procurarsi nulla al di là dello strettamente necessario, né lavorare per il corpo più di quel che sia utile per l’anima.
(…) La purificazione poi dell’anima, per dirla in poche parole ma in modo sufficiente, per voi consiste nel disprezzare i piaceri che pro¬vengono dai sensi, non pascendo gli occhi cogli sconci spettacoli dei prestigiatori oppure con la vista dei corpi che eccitano lo stimolo del piacere e non accogliendo nell’anima, per mezzo delle orecchie, una musica capace di corromperla, poiché da tali suoni provengono passioni degne di schiavi e di uomini spregevoli. (…)
Quanto poi al mescolare nell’aria profumi d’ogni specie per dare piacere all’odorato e ungersi d’unguenti, mi vergogno persino a proibirvelo. Che cosa poi si potrebbe dire intorno alla necessità di non seguire i piaceri del tatto e del gusto, se non che questi costringono chi li ricerca a vivere come le bestie proni al ventre e ai piaceri che da esso dipendono.
Siccome, dunque, la cura soverchia del corpo è dannosa al cor¬po stesso e dannosa all’anima, è manifesta pazzia rendersene schiavo e servirlo. Se noi ci abituassimo a disprezzarlo, nessun’altra cosa al mondo sarebbe capace di attirarci (…)».