(Conferenza del 15-06-03 a Montericco, Reggio Emilia)

 

Ha detto il cardinal Veieau sul letto d’ospedale durante la malattia che lo ha condotto alla morte: “Noi preti sappiamo pronunciare belle frasi sulla malattia, io stesso ne ho parlato con calore, ma ora voglio dire da malato ai preti di non dire più niente perché noi sovente ignoriamo quello che la malattia è. Al pensare quante volte ne ho parlato, e ne ho parlato da insipiente, ne piango ancora”.

Mi sembra importante ricordare questa testimonianza, proprio mentre mi assumo il rischio di parlare della malattia e della sofferenza. L’enigma del male, l’enigma dell’irriducibile sofferenza di cui parla Richeur, resiste ad ogni sapienza e sanziona lo scacco di ogni discorso, soprattutto del discorso concettuale. Più che parlare di malattia, occorrerebbe osservare e ascoltare il malato, colui che nelle sua situazione di sofferenza è il vero maestro, colui che può rivelare noi a noi stessi, colui che rappresenta l’occasione per metterci allo stretto circa il serio della vita.

Dire una parola sulla malattia è una sfida perenne che l’uomo deve sempre raccogliere, nella coscienza che si tratti non di dare la risposta, ma, di far propria una ricerca inesausta e inesauribile ma altrettanto essenziale all’umanizzazione dell’uomo, quanto la domanda: “chi sono?”.

Ricordava Platone: “Non conduce vita umana chi non si interroga su se stesso” e la domanda e la riflessione sulla malattia e più in generale sulla sofferenza è inerente a questo compito di diventare uomo.

Nella realtà  più che la sofferenza astratta e singolare, noi incontriamo uomini e donne sofferenti. La stessa malattia noi la vediamo nel volto e nel corpo delle persone malate. Persone afflitte da malattie diversissime. Si pensi alla specificità  che comporta l’essere sieropositivi oppure portatore di handicap, o segnati da malattie psichiche. Si pensi a malattie mortali e a malattie che possono essere vissute come parentesi più o meno lunghe nell’arco della vita. Vi è poi una maniera assolutamente peculiare con cui ciascuno reagisce alla stessa malattia, maniera che è afferente alla biografia, all’esperienza personale del malato, al suo mondo di riferimenti culturali e religiosi. Lo dimentichiamo questo, ma è una verità .

Quando ho sostato a lungo in India ho visto la malattia e la morte esser vissuta in modo molto diverso da come la viviamo noi qui in occidente. Se la malattia rischia di spersonalizzare il malato è anche vero che il malato personalizza la malattia, il che significa che ciascuno nella sua malattia, a misura di ciò che gli è possibile e grazie all’aiuto di chi eventualmente lo assiste e lo accompagna, è chiamato alla responsabilità  di dotar di senso la propria sofferenza. Qui anche il cristiano non ha ricette e tanto meno garanzie che gli consentano di realizzare questo compito e di affrontare positivamente la malattia più degli altri uomini. L’esperienza mostra che il cristiano, anche se nella malattia ha un punto di riferimento cui può costantemente rivolgersi, deve confrontarsi non solo con lo scacco costituito dalla sua malattia, ma anche sostenere la sua fede e affrontare la crisi e la messa in discussione, così come deve passare dal sapere piuttosto astratto della necessità  di portare la croce dietro a Gesù, all’assunzione non di una croce qualsiasi, ma della propria.

I cammini che la malattia suscita e gli esiti a cui conduce, sono sempre imprevedibili.

Anche il cristiano non ha corsie preferenziali nella malattia, ma piuttosto una strada che attraversa il dolore. Questa strada può essere una strada con Dio, ma non è ne garantita, ne certa, ne assicurata.

Io credo che sia essenziale ascoltare i racconti dei malati o le testimonianze narrative che i loro accompagnatori si premurano di consegnare ai lettori. Nel caso si tratti di un malato che ha cercato di integrare la propria sequela del Signore nell’esperienza della sofferenza, può anche essere una forma di trasmissione della fede.

Il senso cristiano dell’esperienza di malattia avviene nell’incontro tra lo Spirito Santo, la particolare umanità  del malato, la sua fede, l’ambiente che circonda il malato stesso e soprattutto quelli che accompagnano il malato. Per questo è importante quando si parla sulla malattia o sull’attitudine spirituale di fronte ad essa uscire da quel linguaggio, purtroppo troppo presente ancora negli ambienti cristiani: linguaggio categorico, normativo, impositivo del “si deve”. Non è solo un problema di correttezza di linguaggio, ma di rispetto di ciò che può essere solo un evento della libertà  del malato il quale sorretto dalla fede illuminato dallo Spirito sta comunque all’interno di condizionamenti e limitazioni che la malattia gli impone. Quando un cristiano si interroga sulla malattia dovrebbe sempre percepire che la malattia sta come un evento all’interno di una vita. Dunque alla malattia no c’è nessuna precettistica da applicare. Il senso della malattia non è mai già  dato, ma l’evento della malattia è un evento nel quale occorre, con fatica e pazienza, trovare vie di senso.