Il misericordioso è giudice di se stesso nel giudizio finale.
Perciò il Signore dice: “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia”. Essi, non altri: in ciò, infatti, fornisce un chiarimento il nome, come se uno dicesse: “Cosa beata è il prendersi cura della salute fisica; colui infatti che se ne prende cura, vivrà in salute”. Così chi ha misericordia è detto beato perché il frutto della misericordia è possesso proprio di chi è misericordioso, sia seguendo il discorso che abbiamo scoperto ora, sia seguendo quello precedente, ossia il mostrare compassione per le sventure altrui. In entrambi i casi, infatti, è ugualmente bene sia l’aver misericordia di sé, nel modo detto, sia il compatire le sventure dei vicini. Perciò l’equità del giudizio di Dio mostra che la libera scelta dell’uomo verso gli inferiori è in relazione alla superiore volontà, per cui, in un certo qual modo, l’uomo è giudice di se stesso esprimendo il giudizio su di sé nelle cause dei suoi sottoposti. Poiché si crede, e giustamente si crede, che tutta la natura umana sia sottoposta al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la ricompensa secondo quanto ha compiuto quando era nel corpo, sia esso bene o male (è forse audace anche dirlo) se è possibile cogliere con un ragionamento ciò che è ineffabile e invisibile, è anche già possibile comprendere la beatitudine della ricompensa per chi ottiene misericordia. Infatti la benevolenza che nasce nelle anime nei confronti di coloro che mostrano compassione, verosimilmente, rimane perenne, per tutta l’esistenza, nella vita di coloro che partecipano della benevolenza.

 

Gregorio di Nissa – Omelie sulle Beatitudini – Orazione quinta