Meditazione mattutina

Con il settembre comincia a declinare l’estate e ad annunciarsi il tempo dell’autunno.
Signore, non voglio guardare questo tempo come alla fine del ciclo stagionale. La fine è brutta: sa di morte. La terra, invece, si addormenta: così come l’uomo, alla fine del cammino. «Cimitero», si sa, vuol dire dormitorio. E dal sonno, anche questo si sa, ci si risveglia. Così fa il credente, che si abbandona alla sua morte, fiducioso nella resurrezione: e così accade per il sonno autunnale. Le piante rimettono alla terra il bel manto di foglie e restano nude e scheletrite (proprio come l’uomo, quando gli si consuma il mantello di carne e rimane l’impalcatura d’ossa). Però la pianta sa (o noi lo sappiamo per lei) che, a primavera, quel manto verde le sarà ridato, come all’uomo avverrà, nella resurrezione della carne. Ecco dunque, Signore, che ci avviamo verso questa vicenda stagionale che, anno per anno, si ripete; e noi la osserviamo con stupore, come una cosa sempre nuova. Ho a lungo pensato, o mio Signore, a cosa dirti mentre ci disponiamo dolcemente alle soavità autunnali, quando la luce cade sbieca dal cielo, più morbida e pastosa, e le prime nebbie velano la durezza degli spigoli e sfumano i contorni delle cose… Ho a lungo pensato a cosa dirti; poi mi è sembrato di capire che questo lambiccarmi faticoso non era atteggiamento di preghiera: era un darmi da fare mio, più che un attendere te: un attendere quieto, senza affanno, senza impazienza, senza fretta. Il guaio è, Signore, che proprio di questo il nostro mondo, così indaffarato e frenetico, ci ha ormai resi incapaci di aspettare. Siamo sempre sul piede di partenza, sempre con la valigia in mano, sempre protesi a ciò che faremo il giorno dopo e l’ora successiva e mai posati e riposati sull’oggi, sull’«ora», sul momento che stiamo vivendo per succhiarne tutti gli umori, coglierne tutta la densità. La nostra vita è un correre e invece dovrebb’essere un sostare, indugiare, ascoltare. La nostra è la società del fare e del dare, la cultura che ha elaborato, anche sul piano religioso, il valore dell’impegno, della generosità, della dedizione; e non sarò io certo a contestarli. Però che cos’è mai ciò che l’uomo può dare e fare e spendersi rispetto a quanto riceve? Tutto l’uomo riceve: anche la stessa capacità di dare. Infatti che cosa può dare mai se non ciò che ha prima ricevuto? L’uomo, di sé, non ha nulla: nasce nudo, muore vestito perché altri sceglie dal suo guardaroba un indumento che lo faccia ben figurare, nella bara. Durante l’arco della vita l’uomo fa molte cose, ma opera sul già fatto, sulla materia di un mondo che ha già trovato pronto alla sua nascita. Poi si esalta di queste sue capacità ricevute ed elabora orgogliose sentenze: «sua quisque fortuna faber est». E sta bene. Ma la materia prima di questa fortuna, il metallo forgiato da questo faber di chi è? Da dove viene? E la sua intelligenza? Le sue mani? Non voglio certo, mio Signore, cedere alla retorica del «vile verme della terra» che, in altri tempi, era un luogo comune dell’ascetica. No; l’uomo non è un «vile verme» e l’avvilirlo non mi sembra gentile per te che, come dice il salmista, «poco meno degli angeli lo hai fatto, di gloria e onore l’hai coronato» per te, Signore, la cui gloria è appunto l’uomo vivente (è sempre la Scrittura che parla). Avvilire l’uomo è misconoscere te e la tua più elevata creazione. Ma l’uomo è grande perché ha molto ricevuto. Tale è la sua condizione di creatura. E non starò a dire, mio Signore, quanto abbia ricevuto da te, che è cosa ovvia, per un credente. Ma quanto ha ricevuto anche dagli altri uomini e cose; che è poi sempre un ricevere da te, indirettamente. Anzi, di solito, tu gli filtri i tuoi doni attraverso le mani degli altri; e la nostra vita è un perenne ricevere. Noi questo lo predichiamo poco; e io vorrei oggi pregarti di darci questo supremo dono del riconoscere i doni e umilmente, dolcemente, religiosamente accoglierli: attenti a tutte le voci che ci vengono incontro, ci risvegliano i sensi, la coscienza, ci rendono aperti e consapevoli: ci fanno vivere; perché senza questi richiami saremmo sordi e muti. Un momento fa, Signore, mentre scrivevo (ed era ed è ancora quasi notte) il primo gallo ha cantato. Ha salutato l’alba, soffusa appena all’orlo del cielo, a Oriente; e l’Occidente è ancora buio. E doveva avere occhi buoni, quel galletto, per vederla, così pallida ancora com’è, dal chiuso del pollaio. Anzi credo proprio che non l’abbia vista, ma un meccanismo gli è scattato dentro e l’ha avvertito che, ecco, il giorno era là, in arrivo, anche se nel pollaio non filtrava ancora. Ma lui sapeva che era in arrivo e lanciava il suo canto mattutino. Poi, nel silenzio, ho sentito, lontanissimo, lo sferragliare del treno: il primo treno mattutino che, in questa ferrovia di provincia sveglia il personale della stazione e porta al lavoro i primi pendolari. È la vita che riprende. Mentre vado scrivendo la luce lentamente si fa strada nel cielo. Il suo chiarore, ancora pallido, è però già sensibile anche ai miei occhi, meno acuti di quelli di un gallo. Sono adesso le cinque del mattino: le quattro secondo il sole (che è poi l’orario vero) e la maggior parte della gente ancora dorme. Ma fra un’ora si apriranno le prime finestre, appariranno le prime persone per la strada, dopo quei pendolari, primissimi, che anticipavano il giorno. Ora, da pollaio a pollaio, è tutto un chiamarsi e un rispondersi. Gli animali stanno dicendo agli uomini che sono pigri e che è ormai tempo di riprendere a vivere. La grande macchina del mondo si mette in moto; e io voglio ascoltarla, Signore, senza perderne una nota: voglio assorbirne tutto il succo, voglio lasciarmene impastare: una pasta sola, una nota con le altre in un unico suono profondo. Non so se questa meditazione mattutina, fatta di albe, di galli e di treni, ti sembra una preghiera. Io credo di sì perché è fatta soprattutto di te, di un continuo parlarti, attraverso le voci delle cose. Tu prendila, comunque, per tale; e dacci questo dono dell’ascolto di tutto che sia ascolto di te. Non un perdersi tra le realtà del mondo, ma un percorrere – e un venire percorsi – da una larghissima strada che attraversa il tuo regno.