Una sofferenza può essere superata solo se la si concepisce in un contesto valido, ossia se viene collocata in un quadro di riferimento che consente di scoprire le possibilità che ancora permangono da realizzare. Di fronte al dolore, infatti, ci si può porre in maniera masochistica oppure con atteggiamento di fuga (ad esempio, con il suicidio). Ma lo si può anche assumere con maturità dignitosa, pur nella comprensibile difficoltà a comprenderne tutta la portata significativa. Ed ecco allora che viene in aiuto Frankl, allorché indica quattro modalità che consentono di collocare la sofferenza in un contesto carico di senso.
La prima, che caratterizza il dolore come “prestazione”, emerge dal fatto di considerare ogni decisione attuale come frutto naturale, anche se spesso faticoso, di un cammino precedente, nel quale la persona ha individuato come centrali alcuni valori da realizzare. In tale prospettiva, l’atteggiamento che si assume dinanzi alla sofferenza inevitabile costituisce l’ultimo anello di un’intera catena di decisioni, alla cui origine c’è un atto consapevole di libertà. “Se l’uomo ‘si’ decide momento per momento, se ogni decisione è un auto decisione, ciò vale indubbiamente per la decisione primordiale. Dal continuo far-bene deriva alla fine l’essere-buono. Un’azione consiste nel passaggio da una possibilità alla realtà, da una potentia all’actus. Per ciò che riguarda l’autoconfigurazione, chi agisce non si ferma all’unicità di un’azione. Egli fa qualcosa di più: trasforma l’actus in un abitus. Quel che era un’azione è ora un atteggiamento. Ed il suo valore non è inferiore, ma di gran lunga superiore. Questo vuol dire crescere” (vedi V. Frankl. Homo patients. Soffrire con dignità).
La terza modalità è quella della “maturazione” che “poggia sul fatto che l’essere umano giunge ad una libertà interiore nonostante la dipendenza esteriore” e quindi riesce meglio a valutare lo stile di vita precedente, superando la pura e semplice fase della banalità e della superficialità piatta de quotidiano anonimo. Non si è più cullati dalle onde tranquille e sicure, ma ci si trova a dover affrontare i pericoli e gli scogli, le domande e gli appelli. E questo fa maturare, e come!
La quarta modalità è quella dell’”arricchimento”, legato al fatto che la sofferenza “rende l’uomo perspicace e il mondo trasparente”, e quindi consente di cogliere la verità nella sua genuinità, senza gli orpelli che la società, le strutture, le aspettative ambientali e sociali impongono pesantemente sul volto.

Soffrire “per amore di…”
La seconda condizione per aiutare la persona a saper far fronte alle prove dolorose della vita è quella di far scorgere la possibilità di soffrire “per amore di qualcuno o di qualcosa”. Il che vuol dire tornare alla concezione dell’intenzionalità, dell’orientamento verso valori e compiti, del superamento di un rapporto egocentrico e solipsistico incapace di alzare lo sguardo al di sopra dei propri bisogni e delle proprie aspirazioni. Il superamento, cioè, del piacere come obiettivo e come ideale della propria ricerca. In realtà, il piacere “cessa di essere tale non appena viene perseguito: l’uomo che lo ricerca ansiosamente non lo raggiunge mai. Il piacere può essere solo un effetto (“una gratificazione”), non un’intenzione; si lascia solo effettuare, non intendere”.
A tale proposito è significativo un episodio citato da Frankl di una donna che aveva perduto un figlio ancora piccolo ed era rimasta sola con un altro figlio di 20 anni, sofferente del “piccolo male” e costretto a muoversi su una sedia a rotelle. La donna era caduta in un forte stato depressivo e per questo sottoposta a un trattamento logoterapeutico. Ecco cosa accadde durante una seduta di gruppo, così come viene narrato dallo stesso Frankl.
“Mi inserii nella discussione del caso e scelsi lì per lì una giovane donna alla quale chiesi di immaginare di avere 80 anni e, prossima alla morte, di volgere lo sguardo alla vita vissuta in precedenza: una vita ricca di prestigio sociale e con notevole successo erotico. La chiesi: “Cosa direbbe a se stessa?”. Ed ella rispose: “Ho vissuto bene, ero ricca, molto viziata, facevo impazzire gli uomini quando flirtavo con essi. Non mi lasciavo sfuggire nulla. Ora sono vecchia, non lascio al mondo alcun figlio e devo riconoscere che la mia vita, seriamente parlando, è stata una frana. Di tutto ciò che ho vissuto non porto nulla con me nella tomba. Perché sono venuta al mondo?”. A questo punto invitai la mamma dell’invalido ad immaginarsi nella medesima situazione e a dire ciò che pensava: “Ho desiderato dei bambini: tale desiderio è stato esaudito. Il più piccolo è morto. Mi è rimasto il maggiore. Se non ci fossi stata io, da lui non sarebbe venuto nulla di buono. Lo avrebbero rinchiuso in un ospedale per idioti. Sono stata io a fare di lui un uomo. La mia vita non fu una frana. Anche se è stata molto difficile, tuttavia essa era piena di compiti; e se sono riuscita ad assolverli, essa era piena di significato. Ora posso morire tranquilla”. Queste ultime parole le uscirono dalle labbra come un sospiro”.
Il dolore appartiene alla sfera più intima e personale dell’uomo. Chi non è educato alla sofferenza resta sempre un bambino! La crescita, la maturazione, l’arricchimento di una vita umana sono legati al dolore e alla risposta alla domanda: “Perché soffrire?”. E una tale risposta non è pronunciata ad alta voce, con alterigia e superbia, ma viene detta nel profondo del proprio cuore, nell’intimo del proprio essere. “La risposta che l’uomo sofferente dà alla domanda sul perché della sofferenza, attraverso il come egli la sopporta, è sempre una risposta muta, ma è l’unica riposta che abbia senso”.
E colui che avvicina l’uomo sofferente? Quale atteggiamento è da prendere quando ci si trova in situazioni in cui non è più possibile guarire, non è più possibile lenire i dolori e le sofferenze fisiche? Non si è forse tentati di distogliere l’attenzione con inutili e controproducenti surrogati? Ecco ancora le parole di Frankl: “Un’ultima parola, non all’uomo sofferente, ma all’uomo che avvicina il sofferente e soffre con lui: se la sofferenza ha senso, ha senso anche la sua condivisione, compassione. Ma, come la sofferenza, anche la compassione è silenziosa. Il linguaggio ha, infatti, dei limiti. Dove tutte le parole sarebbero ben poca cosa, là ogni parola è di troppo”.

 

Tratto da Ha senso soffrire. Quando la vita ha un senso. Il pensiero di Viktor Frankl di Eugenio Fizzotti, Edizioni CVS