Dio è l’essere che non muta, l’essere preesistente e assoluto. Egli sussiste invariato per sempre, senza alcun limite. Ambrogio lo descrive nelle sue perfezioni in quanto esse sono lo scopo da raggiungere per la creatura. Dio è: «simile a se stesso (simile sui), sempre unico (indissolubile) e immutabile (inmutabile), nel quale noi possiamo essere eterni, nella conoscenza di ogni bene. (…) In quel bene si trovano la pura pace, la luce immortale, la grazia perpetua, la pia eredità delle anime e la imperturbata tranquillità, non soggetta alla morte ma strappata alla morte, là dove non vi sono lacrime e non v’è pianto (Ap 7,17)».

Oltre alle affermazioni sull’essenza immutabile e impassibile di Dio, troviamo in Ambrogio considerazioni ed espressioni della sua sensibilità teologica e cristiana, sul Dio vicino alle amarezze degli uomini, ai loro tormenti, sciagure e smarrimenti. Le sue opere sono un prezioso gioiello ricco di immagini che rivelano la ricchezza della sua dottrina. Ambrogio trasmette con una eccezionale densità di sentimento religioso il suo fervore e la sua passione che faceva vibrare d’amore per Cristo i fedeli di Milano. In questa logica dell’esortazione e nel suo uso dell’immagine ci potremmo aspettare non poche divagazioni su quel Padre che ama fino a soffrire. Nella sua interpretazione allegorica della Scrittura, che richiama l’eredità dei Padri greci, sarebbe più che naturale soffermarsi a riflettere su un’ipotetica sofferenza di Dio davanti alla miseria dell’uomo, ciò che, però, di fatto non accade.
Nella dottrina di Ambrogio c’è, invece, il concetto della compassione. Essa non è un sentimento o un’emozione della natura divina, ma l’espressione della cura misericordiosa di Dio per gli uomini. Egli «addolcisce le amarezze, mitiga le ansie, ammorbidisce le durezze, rinsalda le fragilità». Interpretando la parabola del buon Samaritano (Lc 10, 24-37), Ambrogio vede nel protagonista la figura di Dio Padre di cui non bisogna aver paura. Lo sconosciuto morente sulla strada di Gerico è per Ambrogio il simbolo dell’uomo decaduto per cui Dio è il custode che cura l’anima. Questa preoccupazione di Dio per l’uomo, schiavo del peccato e sofferente, prende corpo in Cristo, medico compassionevole. Lui si china a curare le ferite umane causate dal peccato. Avendo pietà della nostra condizione, la assume, si fa simile a noi e può essere chiamato il nostro prossimo (proximus):

«Hai visto nudo per terra il corpo morto di un miserabile; non sei passato oltre, come quel sacerdote e quel levita di cui narra il Vangelo, ma subito ne hai avuto compassione».

E questo significa che Egli ha curato le ferite con una misericordia senza limiti, con il balsamo della sua parola e del perdono, ha guidato e ha guarito nella sua bontà immensa, si è fatto carico della natura fragile e debole, perché la amava. “Commosso” nell’agire, ma non “piangente” nella sua debolezza fino al punto da impedirsi di operare.
La pedagogia divina agisce per mezzo di Cristo e usa la potenza taumaturgica e salvifica. L’iniziativa salvifica di Dio è come l’intervento del buon Medico per liberare l’uomo dalla malattia della cecità spirituale. La terapia con cui soccorre l’uomo è efficace ed è essenzialmente la sua parola che si compie in Cristo. L’immagine del medico esperto non ha niente a che fare con le sollecitazioni che potrebbe suscitare il simbolo del Padre sofferente. Anzi, Ambrogio rivolgendosi ai fedeli testimonia con forza: «Ascoltatemi, uomini fatti di terra, che nutrite ebbri pensieri con i vostri peccati. Anch’io, come Levi, ero piegato dalle vostre stesse passioni. Ho trovato un medico, il quale abita in cielo e diffonde sulla terra la sua medicina. Lui solo può risanare le mie ferite, perché non ne ha di proprie. Lui solo può cancellare il dolore del cuore, il pallore dell’anima, perché conosce i mali nascosti».

L’idea della diagnosi, della conoscenza e della comprensione della fragilità umana esclude qualsiasi possibile idea della sofferenza divina per il dolore umano. A questo punto notiamo un altro particolare: se l’amore di Dio viene descritto con l’efficacia dell’impegno salvifico, l’amore umano presenta un’altra dinamica.
Essenzialmente sono la conversione e la penitenza che consentono a Dio di abitare nel cuore del credente. Esse sono spesso accompagnate dall’espressione di una profonda sofferenza umana, dolore per i peccati, lacrime e pianto; tutto ciò che caratterizza la natura umana. Il vescovo di Milano riconosce il bisogno umano del linguaggio dell’amore e perciò prega: «Prima di tutto, donami di saper compatire con affetto i peccatori. Ogni volta che mi si confessa il peccato da parte del colpevole, che io sappia prendere parte al suo dolore! Invece di riprenderlo con alterigia, che io sappia affliggermene e piangere!».

Per il Dottore della Chiesa il Cristo, nella decisione di farsi carico dei nostri peccati, ha accolto la natura umana e solo così ha potuto soffrire per noi. Nella sua sofferenza ha dato un volto umano all’amore perfetto e misericordioso di Dio.

 

(Tratto da CRISTOFORO CHARAMSA, Davvero Dio soffre?. La tradizione e l’insegnamento di San Tommaso, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2003).