Il romano Giulio Di Mattia fu uno dei primi a consacrarsi ai Silenziosi Operai della Croce nell’anno 1951 ma morì poco dopo tale consacrazione.
Chi e? O, meglio, chi era Giulio di Mattia? Era un ragazzo esuberante di energie, un vero puledro lanciato a corsa sfrenata nella vita: campione ciclista e attore di varietà. Riusciva con facilità irrisoria a vincere una corsa, e, con Ettore Petrolini, mandava in visibilio le platee di Roma, suscitando le più irresistibili risate. Chi l’avrebbe fermato nella corsa della vita? Un brutto mattino non riesce ad alzarsi dal letto. Sono i primi oscuri, e pur terribili segni di un’artrite deformante progressiva, che nello spazio di tre anni, fa di quel corpo apollineo un tronco d’ulivo contorto. Lo circondano di cure e d’affetto mamma e sorelle, ma inutilmente; inutilmente cerca di dimenticare leggendo, di stordirsi ascoltando la radio.
La disperazione lo soffoca e un giorno tenta anche il suicidio. Giulio prova tutte le medicine, meno l’unica buona. Per la Pasqua del 1936 viene il parroco a benedire le case in zona Val Melania e all’arrivo del sacerdote si aprono tutte le case, si spalancano tutti gli usci.
«In quella camera, no, reverendo, non entri — l’accoglierebbe troppo male. Non crede più a niente!». II buon pastore ha un istante di esitazione poi, con la preghiera sul labbro, entra. L’accoglie una maledizione. Un’imprecazione, un urlo. «Vada via!» «Ascoltami figliuolo…». E gli parla, lentamente e dolcemente, per più d’un’ora dell’unica medicina che non ha ancora provato: Gesù!
Quando esce da quella camera, Gesù e entrato in quell’anima; Giulio ora crede. Crede in modo così forte; gioioso, irresistibile che il ghigno amaro di un’ora prima, si e trasfigurato in un cantico di letizia. E da quel giorno non si e più spento. Si e spento un occhio, il destro; una gamba si è arcuata come un sterpo, un braccio e stecchito al fianco, l’altro e piegato sul petto. Non può aprire le mascelle per mangiare, se non l’aiuta la mamma con due stecchi di legno… ma il sorriso non e più scomparso da quel volto.
Come fu? chiaro, dopo quel giorno
– venuta a me la Provvidenza santa
– grazie a don Sala, i diavoli scapporno – e l’anima felice adesso canta!
Giulio era anche poeta e…. canta così bene che si recano sovente a trovarlo prelati secolari, patrizi e popolani, per attingere da quel malato un po’ di sanità spirituale. Essi, certo, i sani, non hanno la sua letizia. Egli non parla quasi mai di se. Se qualcuno andasse da Giulio e gli dicesse «Coraggio! e giunto a Roma uno specialista americano. Una celebrità, che ti può guarire… Vuoi che lo chiamo?» risponderebbe, «Lasciatemi, sono troppo contento della mia vita. Quanti sono più infelici di me, perché non hanno la fede!». Non chiede la guarigione come non l’ha chiesta le otto volte che l’hanno portato a Loreto.
Due sono i modi di soffrire: o da disperato o da cristiano. II primo a che serve? A far spremere più amare le lagrime. A chi serve? a nessuno. II secondo e utile a tutti: a chi soffre e a chi vede soffrire. Bisogna fare come l’ostrica che sa ricucire la propria ferita con una perla e cosi tornerà il bel sole e le dolci mattine di primavera per gli occhi che hanno pianto; beati quelli che soffrono… così. Così, e cioè con Gesù.