Nella Giornata dedicata ai Migranti le sculture di Bruno Catalano sono un’opportunità preziosa di riflessione sul senso dello sradicamento, della ricerca, e della bellezza che nasce dall’imperfezione.
Le sue opere rappresentano delle persone in viaggio: di varie etnie, portano valige e borse, vestiti poveramente oppure no, ma tutte hanno in sé del vuoto.
L’artista spiega in una intervista che è nato tutto da un errore: “Quando ero giovane, in fonderia, una fusione non è uscita come avevo pensato: c’era un buco nella pancia di una figura. Invece di correggerlo – perché non potevo correggerlo – ho deciso di lasciare quel buco. E lì ho compreso: quel vuoto ero io. E non potevo metterlo via. Quel difetto è diventato il centro, il cuore dell’opera: il vuoto è dove si concentra il dolore, la memoria, la ferita, ma anche la possibilità”.
Nato in Marocco nel 1960 da genitori italiani e costretto all’esilio in Francia all’età di 15 anni, Catalano ha saputo trasformare lo sradicamento in linguaggio. A chi gli chiede cosa significa quel vuoto, risponde: “Per me il vuoto è la traccia del viaggio che non torna. Ho imparato che quello che considero imperfezione è spesso ciò che dà senso, che provoca empatia. Le mie figure non finite invitano chi guarda a completarsi, a immaginarsi. È un dialogo interiore: le mie figure non sono compiute, sono vuote, perché credo fortemente che nessuno sia completo”.
Il vuoto è anche il segno della ferita che rimane aperta “perché un pezzo non torna mai. Ma è anche trasformazione. Perché il dolore, se restasse solo dolore, paralizzerebbe. Io ho scelto di farlo diventare materia, forma, scultura. Non per forza bellezza nel senso convenzionale, ma una bellezza che commuove, che fa pensare.
L’arte è un luogo sacro della memoria, dell’appartenenza, dell’umano. E, nella Giornata del Migrante e Rifugiato, penso che queste figure possano essere porte aperte al dialogo: per vedere l’altro con empatia, per sentire che il dolore dell’altro può risuonare in noi, per riconoscere che tutti portiamo una valigia — materiale o intima — e in quella valigia c’è chi siamo. E quando sento che le mie opere parlano al cuore di qualcuno, quel vuoto si riempie — almeno per un momento — di senso”.


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