UDIENZE GENERALI SETTEMBRE

 

UDIENZA GENERALE: Piazza San Pietro, Mercoledì 3 settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 5. La crocifissione. «Ho sete» (Gv 19,28)

Cari fratelli e sorelle,

nel cuore del racconto della passione, nel momento più luminoso e insieme più tenebroso della vita di Gesù, il Vangelo di Giovanni ci consegna due parole che racchiudono un mistero immenso: «Ho sete» (19,28), e subito dopo: «È compiuto» (19,30). Parole ultime, ma cariche di una vita intera, che svelano il senso di tutta l’esistenza del Figlio di Dio. Sulla croce, Gesù non appare come un eroe vittorioso, ma come un mendicante d’amore. Non proclama, non condanna, non si difende. Chiede, umilmente, ciò che da solo non può in alcun modo darsi.

La sete del Crocifisso non è soltanto il bisogno fisiologico di un corpo straziato. È anche, e soprattutto, espressione di un desiderio profondo: quello di amore, di relazione, di comunione. È il grido silenzioso di un Dio che, avendo voluto condividere tutto della nostra condizione umana, si lascia attraversare anche da questa sete. Un Dio che non si vergogna di mendicare un sorso, perché in quel gesto ci dice che l’amore, per essere vero, deve anche imparare a chiedere e non solo a dare.

Ho sete, dice Gesù, e in questo modo manifesta la sua umanità e anche la nostra. Nessuno di noi può bastare a sé stesso. Nessuno può salvarsi da solo. La vita si “compie” non quando siamo forti, ma quando impariamo a ricevere. E proprio in quel momento, dopo aver ricevuto da mani estranee una spugna imbevuta di aceto, Gesù proclama: È compiuto. L’amore si è fatto bisognoso, e proprio per questo ha portato a termine la sua opera.

Questo è il paradosso cristiano: Dio salva non facendo, ma lasciandosi fare. Non vincendo il male con la forza, ma accettando fino in fondo la debolezza dell’amore. Sulla croce, Gesù ci insegna che l’uomo non si realizza nel potere, ma nell’apertura fiduciosa all’altro, persino quando ci è ostile e nemico. La salvezza non sta nell’autonomia, ma nel riconoscere con umiltà il proprio bisogno e nel saperlo liberamente esprimere.

Il compimento della nostra umanità nel disegno di Dio non è un atto di forza, ma un gesto di fiducia. Gesù non salva con un colpo di scena, ma chiedendo qualcosa che da solo non può darsi. E qui si apre una porta sulla vera speranza: se anche il Figlio di Dio ha scelto di non bastare a sé stesso, allora anche la nostra sete – di amore, di senso, di giustizia – non è un segno di fallimento, ma di verità.

Questa verità, apparentemente così semplice, è difficile da accogliere. Viviamo in un tempo che premia l’autosufficienza, l’efficienza, la prestazione. Eppure, il Vangelo ci mostra che la misura della nostra umanità non è data da ciò che possiamo conquistare, ma dalla capacità di lasciarci amare e, quando serve, anche aiutare.

Gesù ci salva mostrandoci che chiedere non è indegno, ma liberante. È la via per uscire dal nascondimento del peccato, per rientrare nello spazio della comunione. Fin dall’inizio, il peccato ha generato vergogna. Ma il perdono, quello vero, nasce quando possiamo guardare in faccia il nostro bisogno e non temere più di essere rifiutati.

La sete di Gesù sulla croce è allora anche la nostra. È il grido dell’umanità ferita che cerca ancora acqua viva. E questa sete non ci allontana da Dio, piuttosto ci unisce a Lui. Se abbiamo il coraggio di riconoscerla, possiamo scoprire che anche la nostra fragilità è un ponte verso il cielo. Proprio nel chiedere – non nel possedere – si apre una via di libertà perché smettiamo di pretendere di bastare a noi stessi.

Nella fraternità, nella vita semplice, nell’arte di domandare senza vergogna e di offrire senza calcolo, si nasconde una gioia che il mondo non conosce. Una gioia che ci restituisce alla verità originaria del nostro essere: siamo creature fatte per donare e ricevere l’amore.

Cari fratelli e sorelle, nella sete di Cristo possiamo riconoscere tutta la nostra sete. E imparare che non c’è nulla di più umano, nulla di più divino, del saper dire: ho bisogno. Non temiamo di chiedere, soprattutto quando ci sembra di non meritarlo. Non vergogniamoci di tendere la mano. È proprio lì, in quel gesto umile, che si nasconde la salvezza.

 UDIENZA GIUBILARE: Piazza San Pietro, Sabato 6 settembre 2025

Catechesi. 4. Sperare è scavare. Elena imperatrice

Cari fratelli e sorelle,

(…) “Inventare” – sapete – in latino significa “trovare”. La grande “invenzione” di Elena fu il ritrovamento della Santa Croce. Ecco il tesoro nascosto per cui vendere tutto! La Croce di Gesù è la scoperta più grande della vita, il valore che modifica tutti i valori.

Elena poté capirlo, forse, perché aveva portato a lungo la propria croce. Non era nata a corte: si dice che fosse una locandiera di umili origini, di cui il futuro imperatore Costanzo si innamorò. La sposò, ma per calcoli di potere non esitò poi a ripudiarla allontanandola per anni dal figlio Costantino. Divenuto imperatore, Costantino stesso le procurò non pochi dolori e delusioni, ma Elena fu sempre sé stessa: una donna in ricerca. Aveva deciso di diventare cristiana e praticò sempre la carità, non dimenticando mai gli umili da cui lei stessa proveniva.

Tanta dignità e fedeltà alla coscienza, cari fratelli e sorelle, cambiano il mondo anche oggi: avvicinano al tesoro, come il lavoro dell’agricoltore. Coltivare il proprio cuore richiede fatica. È il più grande lavoro. Ma scavando si trova, abbassandosi ci si avvicina sempre di più a quel Signore che spogliò sé stesso per farsi come noi. La sua Croce è sotto la crosta della nostra terra.

Possiamo camminare orgogliosi, calpestando distrattamente il tesoro che è sotto i nostri piedi. Se invece diventiamo come bambini, conosceremo un altro Regno, un’altra forza. Dio è sempre sotto di noi, per sollevarci in alto.

 

UDIENZA GENERALE: Piazza San Pietro, Mercoledì 10 settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

 

UDIENZA GENERALE: Piazza San Pietro, Mercoledì 17 settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 7. La morte. «Un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto» Gv 19,40-41

Cari fratelli e sorelle,

nel nostro cammino di catechesi su Gesù nostra speranza, oggi contempliamo il mistero del Sabato Santo. Il Figlio di Dio giace nel sepolcro. Ma questa sua “assenza” non è un vuoto: è attesa, pienezza trattenuta, promessa custodita nel buio. È il giorno del grande silenzio, in cui il cielo sembra muto e la terra immobile, ma è proprio lì che si compie il mistero più profondo della fede cristiana. È un silenzio gravido di senso, come il grembo di una madre che custodisce il figlio non ancora nato, ma già vivo.

Il corpo di Gesù, calato dalla croce, viene fasciato con cura, come si fa con ciò che è prezioso. L’evangelista Giovanni ci dice che fu sepolto in un giardino, dentro «un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto» (Gv 19,41). Nulla è lasciato al caso. Quel giardino richiama l’Eden perduto, il luogo in cui Dio e l’uomo erano uniti. E quel sepolcro mai usato parla di qualcosa che deve ancora accadere: è una soglia, non un termine. All’inizio della creazione Dio aveva piantato un giardino, ora anche la nuova creazione prende avvio in un giardino: con una tomba chiusa che, presto, si aprirà.

Il Sabato Santo è anche un giorno di riposo. Secondo la Legge ebraica, nel settimo giorno non si deve lavorare: infatti, dopo sei giorni di creazione, Dio si riposò (cfr Gen 2,2). Ora anche il Figlio, dopo aver completato la sua opera di salvezza, riposa. Non perché è stanco, ma perché ha terminato il suo lavoro. Non perché si è arreso, ma perché ha amato fino in fondo. Non c’è più nulla da aggiungere. Questo riposo è il sigillo dell’opera compiuta, è la conferma che ciò che doveva essere fatto è stato davvero portato a termine. È un riposo pieno della presenza nascosta del Signore.

Noi facciamo fatica a fermarci e a riposare. Viviamo come se la vita non fosse mai abbastanza. Corriamo per produrre, per dimostrare, per non perdere terreno. Ma il Vangelo ci insegna che saperci fermare è un gesto di fiducia che dobbiamo imparare a compiere. Il Sabato Santo ci invita a scoprire che la vita non dipende sempre da ciò che facciamo, ma anche da come sappiamo congedarci da quanto abbiamo potuto fare.

Nel sepolcro, Gesù, la Parola vivente del Padre, tace. Ma è proprio in quel silenzio che la vita nuova inizia a fermentare. Come un seme nella terra, come il buio prima dell’alba. Dio non ha paura del tempo che passa, perché è Signore anche dell’attesa. Così, anche il nostro tempo “inutile”, quello delle pause, dei vuoti, dei momenti sterili, può diventare grembo di risurrezione. Ogni silenzio accolto può essere la premessa di una Parola nuova. Ogni tempo sospeso può diventare tempo di grazia, se lo offriamo a Dio.

Gesù, sepolto nella terra, è il volto mite di un Dio che non occupa tutto lo spazio. È il Dio che lascia fare, che attende, che si ritira per lasciare a noi la libertà. È il Dio che si fida, anche quando tutto sembra finito. E noi, in quel sabato sospeso, impariamo che non dobbiamo avere fretta di risorgere: prima occorre restare, accogliere il silenzio, lasciarci abbracciare dal limite. A volte cerchiamo risposte rapide, soluzioni immediate. Ma Dio lavora nel profondo, nel tempo lento della fiducia. Il sabato della sepoltura diventa così il grembo da cui può sgorgare la forza di una luce invincibile, quella della Pasqua.

Cari amici, la speranza cristiana non nasce nel rumore, ma nel silenzio di un’attesa abitata dall’amore. Non è figlia dell’euforia, ma dell’abbandono fiducioso. Ce lo insegna la Vergine Maria: lei incarna questa attesa, questa fiducia, questa speranza. Quando ci sembra che tutto sia fermo, che la vita sia una strada interrotta, ricordiamoci del Sabato Santo. Anche nel sepolcro, Dio sta preparando la sorpresa più grande. E se sappiamo accogliere con gratitudine quello che è stato, scopriremo che, proprio nella piccolezza e nel silenzio, Dio ama trasfigurare la realtà, facendo nuove tutte le cose con la fedeltà del suo amore. La vera gioia nasce dall’attesa abitata, dalla fede paziente, dalla speranza che quanto è vissuto nell’amore, certo, risorgerà a vita eterna.

UDIENZA GENERALE: Piazza San Pietro, Mercoledì 24 settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 8. La discesa. «E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere» (1Pt 3,19)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

anche oggi ci soffermiamo sul mistero del Sabato Santo. È il giorno del Mistero pasquale in cui tutto sembra immobile e silenzioso, mentre in realtà si compie un’invisibile azione di salvezza: Cristo scende nel regno degli inferi per portare l’annuncio della Risurrezione a tutti coloro che erano nelle tenebre e nell’ombra della morte.

Questo evento, che la liturgia e la tradizione ci hanno consegnato, rappresenta il gesto più profondo e radicale dell’amore di Dio per l’umanità. Infatti, non basta dire né credere che Gesù è morto per noi: occorre riconoscere che la fedeltà del suo amore ha voluto cercarci là dove noi stessi ci eravamo perduti, là dove si può spingere solo la forza di una luce capace di attraversare il dominio delle tenebre.

Gli inferi, nella concezione biblica, sono non tanto un luogo, quanto una condizione esistenziale: quella condizione in cui la vita è depotenziata e regnano il dolore, la solitudine, la colpa e la separazione da Dio e dagli altri. Cristo ci raggiunge anche in questo abisso, varcando le porte di questo regno di tenebra. Entra, per così dire, nella casa stessa della morte, per svuotarla, per liberarne gli abitanti, prendendoli per mano ad uno ad uno. È l’umiltà di un Dio che non si ferma davanti al nostro peccato, che non si spaventa di fronte all’estremo rifiuto dell’essere umano.

L’apostolo Pietro, nel breve passo della sua prima Lettera che abbiamo ascoltato, ci dice che Gesù, reso vivo nello Spirito Santo, andò a portare l’annuncio di salvezza «anche alle anime prigioniere» (1Pt 3,19). È una delle immagini più commoventi, che si trova sviluppata non nei Vangeli canonici, ma in un testo apocrifo chiamato Vangelo di Nicodemo. Secondo questa tradizione, il Figlio di Dio si è addentrato nelle tenebre più fitte per raggiungere anche l’ultimo dei suoi fratelli e sorelle, per portare anche laggiù la sua luce. In questo gesto ci sono tutta la forza e la tenerezza dell’annuncio pasquale: la morte non è mai l’ultima parola.

Carissimi, questa discesa di Cristo non riguarda solo il passato, ma tocca la vita di ciascuno di noi. Gli inferi non sono solo la condizione di chi è morto, ma anche di chi vive la morte a causa del male e del peccato. È anche l’inferno quotidiano della solitudine, della vergogna, dell’abbandono, della fatica di vivere. Cristo entra in tutte queste realtà oscure per testimoniarci l’amore del Padre. Non per giudicare, ma per liberare. Non per colpevolizzare, ma per salvare. Lo fa senza clamore, in punta di piedi, come chi entra in una stanza d’ospedale per offrire conforto e aiuto.

I Padri della Chiesa, in pagine di straordinaria bellezza, hanno descritto questo momento come un incontro: quello tra Cristo e Adamo. Un incontro che è simbolo di tutti gli incontri possibili tra Dio e l’uomo. Il Signore scende là dove l’uomo si è nascosto per paura, e lo chiama per nome, lo prende per mano, lo rialza, lo riporta alla luce. Lo fa con piena autorità, ma anche con infinita dolcezza, come un padre con il figlio che teme di non essere più amato.

Nelle icone orientali della Risurrezione, Cristo è raffigurato mentre sfonda le porte degli inferi e, tendendo le sue braccia, afferra i polsi di Adamo ed Eva. Non salva solo sé stesso, non torna alla vita da solo, ma trascina con sé tutta l’umanità. Questa è la vera gloria del Risorto: è potenza d’amore, è solidarietà di un Dio che non vuole salvarsi senza di noi, ma solo con noi. Un Dio che non risorge se non abbracciando le nostre miserie e rialzandoci in vista di una vita nuova.

Il Sabato Santo è, allora, il giorno in cui il cielo visita la terra più in profondità. È il tempo in cui ogni angolo della storia umana viene toccato dalla luce della Pasqua. E se Cristo ha potuto scendere fino a lì, nulla può essere escluso dalla sua redenzione. Nemmeno le nostre notti, nemmeno le nostre colpe più antiche, nemmeno i nostri legami spezzati. Non c’è passato così rovinato, non c’è storia così compromessa che non possa essere toccata dalla misericordia.

Cari fratelli e sorelle, scendere, per Dio, non è una sconfitta, ma il compimento del suo amore. Non è un fallimento, ma la via attraverso cui Egli mostra che nessun luogo è troppo lontano, nessun cuore troppo chiuso, nessuna tomba troppo sigillata per il suo amore. Questo ci consola, questo ci sostiene. E se a volte ci sembra di toccare il fondo, ricordiamo: quello è il luogo da cui Dio è capace di cominciare una nuova creazione. Una creazione fatta di persone rialzate, di cuori perdonati, di lacrime asciugate. Il Sabato Santo è l’abbraccio silenzioso con cui Cristo presenta tutta la creazione al Padre per ricollocarla nel suo disegno di salvezza.

OMELIE  SETTEMBRE

SANTA MESSA E CANONIZZAZIONE DEI BEATI:
– PIER GIORGIO FRASSATI – CARLO ACUTIS

Piazza San Pietro, 7 settembre 2025

Cari fratelli e sorelle,

nella prima Lettura abbiamo sentito una domanda: «[Signore,] chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?» (Sap 9,17). L’abbiamo sentita dopo che due giovani Beati, Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, sono stati proclamati Santi, e ciò è provvidenziale. Questa domanda, infatti, nel Libro della Sapienza, è attribuita proprio a un giovane come loro: il re Salomone. Egli, alla morte di Davide, suo padre, si era reso conto di disporre di tante cose: il potere, la ricchezza, la salute, la giovinezza, la bellezza, il regno. Ma proprio questa grande abbondanza di mezzi gli aveva fatto sorgere nel cuore una domanda: “Cosa devo fare perché nulla vada perduto?”. E aveva capito che l’unica via per trovare una risposta era quella di chiedere a Dio un dono ancora più grande: la sua Sapienza, per conoscere i suoi progetti e aderirvi fedelmente. Si era reso conto, infatti, che solo così ogni cosa avrebbe trovato il suo posto nel grande disegno del Signore. Sì, perché il rischio più grande della vita è quello di sprecarla al di fuori del progetto di Dio.

Anche Gesù, nel Vangelo, ci parla di un progetto a cui aderire fino in fondo. Dice: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,27); e ancora: «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (v. 33). Ci chiama, cioè, a buttarci senza esitazioni nell’avventura che Lui ci propone, con l’intelligenza e la forza che vengono dal suo Spirito e che possiamo accogliere nella misura in cui ci spogliamo di noi stessi, delle cose e delle idee a cui siamo attaccati, per metterci in ascolto della sua parola.

Tanti giovani, nel corso dei secoli, hanno dovuto affrontare questo bivio nella vita. Pensiamo a San Francesco d’Assisi: come Salomone, anche lui era giovane e ricco, assetato di gloria e di fama. Per questo era partito per la guerra, sperando di essere investito “cavaliere” e di coprirsi di onori. Ma Gesù gli era apparso lungo il cammino e lo aveva fatto riflettere su ciò che stava facendo. Rientrato in sé, aveva rivolto a Dio una semplice domanda: «Signore, che vuoi che io faccia?». E da lì, tornando sui suoi passi, aveva cominciato a scrivere una storia diversa: la meravigliosa storia di santità che tutti conosciamo, spogliandosi di tutto per seguire il Signore (cfr Lc 14,33), vivendo in povertà e preferendo all’oro, all’argento e alle stoffe preziose di suo padre l’amore per i fratelli, specialmente i più deboli e i più piccoli.

E quanti altri santi e sante potremmo ricordare! A volte noi li raffiguriamo come grandi personaggi, dimenticando che per loro tutto è cominciato quando, ancora giovani, hanno risposto “sì” a Dio e si sono donati a Lui pienamente, senza tenere nulla per sé. Sant’Agostino racconta, in proposito, che, nel «nodo tortuoso e aggrovigliato» della sua vita, una voce, nel profondo, gli diceva: «Voglio te». E così Dio gli ha dato una nuova direzione, una nuova strada, una nuova logica, in cui nulla della sua esistenza è andato perduto.

In questa cornice, oggi guardiamo a San Pier Giorgio Frassati e a San Carlo Acutis: un giovane dell’inizio del Novecento e un adolescente dei nostri giorni, tutti e due innamorati di Gesù e pronti a donare tutto per Lui.

Pier Giorgio ha incontrato il Signore attraverso la scuola e i gruppi ecclesiali – l’Azione Cattolica, le Conferenze di San Vincenzo, la FUCI, il Terz’Ordine domenicano – e lo ha testimoniato con la sua gioia di vivere e di essere cristiano nella preghiera, nell’amicizia, nella carità. Al punto che, a forza di vederlo girare per le strade di Torino con carretti pieni di aiuti per i poveri, gli amici lo avevano ribattezzato “Frassati Impresa Trasporti”! Anche oggi, la vita di Pier Giorgio rappresenta una luce per la spiritualità laicale. Per lui la fede non è stata una devozione privata: spinto dalla forza del Vangelo e dall’appartenenza alle associazioni ecclesiali, si è impegnato generosamente nella società, ha dato il suo contributo alla vita politica, si è speso con ardore al servizio dei poveri.

Carlo, da parte sua, ha incontrato Gesù in famiglia, grazie ai suoi genitori, Andrea e Antonia – presenti qui oggi con i due fratelli, Francesca e Michele – e poi a scuola, anche lui, e soprattutto nei Sacramenti, celebrati nella comunità parrocchiale. È cresciuto, così, integrando naturalmente nelle sue giornate di bambino e di ragazzo preghiera, sport, studio e carità.

Entrambi, Pier Giorgio e Carlo, hanno coltivato l’amore per Dio e per i fratelli attraverso mezzi semplici, alla portata di tutti: la santa Messa quotidiana, la preghiera, specialmente l’Adorazione eucaristica. Carlo diceva: «Davanti al sole ci si abbronza. Davanti all’Eucaristia si diventa santi!», e ancora: «La tristezza è lo sguardo rivolto verso sé stessi, la felicità è lo sguardo rivolto verso Dio. La conversione non è altro che spostare lo sguardo dal basso verso l’Alto, basta un semplice movimento degli occhi». Un’altra cosa essenziale per loro era la Confessione frequente. Carlo ha scritto: «L’unica cosa che dobbiamo temere veramente è il peccato»; e si meravigliava perché – sono sempre parole sue – «gli uomini si preoccupano tanto della bellezza del proprio corpo e non si preoccupano della bellezza della propria anima». Tutti e due, infine, avevano una grande devozione per i Santi e per la Vergine Maria, e praticavano generosamente la carità. Pier Giorgio diceva: «Intorno ai poveri e agli ammalati io vedo una luce che noi non abbiamo». Chiamava la carità “il fondamento della nostra religione” e, come Carlo, la esercitava soprattutto attraverso piccoli gesti concreti, spesso nascosti, vivendo quella che Papa Francesco ha chiamato «la santità “della porta accanto”» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 7).

Perfino quando la malattia li ha colpiti e ha stroncato le loro giovani vite, nemmeno questo li ha fermati e ha impedito loro di amare, di offrirsi a Dio, di benedirlo e di pregarlo per sé e per tutti. Un giorno Pier Giorgio disse: «Il giorno della morte sarà il più bel giorno della mia vita»; e sull’ultima foto, che lo ritrae mentre scala una montagna della Val di Lanzo, col volto rivolto alla meta, aveva scritto: «Verso l’alto». Del resto, ancora più giovane, Carlo amava dire che il Cielo ci aspetta da sempre, e che amare il domani è dare oggi il meglio del nostro frutto.

Carissimi, i santi Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis sono un invito rivolto a tutti noi, soprattutto ai giovani, a non sciupare la vita, ma a orientarla verso l’alto e a farne un capolavoro. Ci incoraggiano con le loro parole: “Non io, ma Dio”, diceva Carlo. E Pier Giorgio: “Se avrai Dio per centro di ogni tua azione, allora arriverai fino alla fine”. Questa è la formula semplice, ma vincente, della loro santità. Ed è pure la testimonianza che siamo chiamati a seguire, per gustare la vita fino in fondo e andare incontro al Signore nella festa del Cielo.

COMMEMORAZIONE DEI MARTIRI E TESTIMONI DELLA FEDE DEL XXI SECOLO

Basilica di San Paolo fuori le mura, 14 settembre 2025

Fratelli e sorelle,

«Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6,14). Le parole dell’apostolo Paolo, presso la cui tomba siamo riuniti, ci introducono alla commemorazione dei martiri e dei testimoni della fede del XXI secolo, nella festa dell’Esaltazione della Santa Croce.

Ai piedi della Croce di Cristo, nostra salvezza, descritta come la “speranza dei cristiani” e la “gloria dei martiri” (cfr Vespro della Liturgia bizantina per la Festa dell’Esaltazione della Croce), saluto i Rappresentanti delle Chiese Ortodosse, delle Antiche Chiese Orientali, delle Comunioni cristiane e delle Organizzazioni ecumeniche, che ringrazio per aver accettato il mio invito a questa celebrazione. A tutti voi qui presenti rivolgo il mio abbraccio di pace!

Siamo convinti che la martyria fino alla morte è «la comunione più vera che ci sia con Cristo che effonde il suo sangue e, in questo sacrificio, fa diventare vicini coloro che un tempo erano lontani (cfr Ef 2,13)» (Lett. enc. Ut unum sint, 84). Anche oggi possiamo affermare con Giovanni Paolo II che, laddove l’odio sembrava permeare ogni aspetto della vita, questi audaci servitori del Vangelo e martiri della fede hanno dimostrato in modo evidente che «l’amore è più forte della morte» (Commemorazione dei Testimoni della fede nel XX secolo, 7 maggio 2000).

Ricordiamo questi nostri fratelli e sorelle con lo sguardo rivolto al Crocifisso. Con la sua croce Gesù ci ha manifestato il vero volto di Dio, la sua infinita compassione per l’umanità; ha preso su di sé l’odio e la violenza del mondo, per condividere la sorte di tutti coloro che sono umiliati e oppressi: «Si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori» (Is 53,4).

Tanti fratelli e sorelle, anche oggi, a causa della loro testimonianza di fede in situazioni difficili e contesti ostili, portano la stessa croce del Signore: come Lui sono perseguitati, condannati, uccisi. Di essi Gesù dice: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt 5,10-11). Sono donne e uomini, religiose e religiosi, laici e sacerdoti, che pagano con la vita la fedeltà al Vangelo, l’impegno per la giustizia, la lotta per la libertà religiosa laddove è ancora violata, la solidarietà con i più poveri. Secondo i criteri del mondo essi sono stati “sconfitti”. In realtà, come ci dice il Libro della Sapienza: «Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza resta piena d’immortalità» (Sap 3,4).

Fratelli e sorelle, nel corso dell’Anno giubilare, celebriamo la speranza di questi coraggiosi testimoni della fede. È una speranza piena d’immortalità, perché il loro martirio continua a diffondere il Vangelo in un mondo segnato dall’odio, dalla violenza e dalla guerra; è una speranza piena d’immortalità, perché, pur essendo stati uccisi nel corpo, nessuno potrà spegnere la loro voce o cancellare l’amore che hanno donato; è una speranza piena d’immortalità, perché la loro testimonianza rimane come profezia della vittoria del bene sul male.

Sì, la loro è una speranza disarmata. Hanno testimoniato la fede senza mai usare le armi della forza e della violenza, ma abbracciando la debole e mite forza del Vangelo, secondo le parole dell’apostolo Paolo: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. […] Infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10).

Penso alla forza evangelica di Suor Dorothy Stang, impegnata per i senza terra in Amazzonia: a chi si apprestava a ucciderla chiedendole un’arma, lei mostrò la Bibbia rispondendo: “Ecco la mia unica arma”. Penso a Padre Ragheed Ganni, prete caldeo di Mosul in Iraq, che ha rinunciato a combattere per testimoniare come si comporta un vero cristiano. Penso a fratel Francis Tofi, anglicano e membro della Melanesian Brotherhood, che ha dato la vita per la pace nelle Isole Salomone. Gli esempi sarebbero tanti, perché purtroppo, nonostante la fine delle grandi dittature del Novecento, ancora oggi non è finita la persecuzione dei cristiani, anzi, in alcune parti del mondo è aumentata.

Questi audaci servitori del Vangelo e martiri della fede, «costituiscono come un grande affresco dell’umanità cristiana […]. Un affresco del vangelo delle Beatitudini, vissuto sino allo spargimento del sangue» (S. Giovanni Paolo II, Commemorazione dei Testimoni della fede nel XX secolo, 7 maggio 2000).

Cari fratelli e sorelle, non possiamo, non vogliamo dimenticare. Vogliamo ricordare. Lo facciamo, certi che, come nei primi secoli, anche nel terzo millennio «il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani» (Tertulliano). Vogliamo preservare la memoria insieme ai nostri fratelli e sorelle delle altre Chiese e Comunioni cristiane. Desidero quindi ribadire l’impegno della Chiesa Cattolica a custodire la memoria dei testimoni della fede di tutte le tradizioni cristiane. La Commissione per i Nuovi Martiri, presso il Dicastero per le Cause dei Santi, adempie a tale compito, collaborando con il Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.

Come riconoscevamo durante il recente Sinodo, l’ecumenismo del sangue unisce i «cristiani di appartenenze diverse che insieme danno la vita per la fede in Gesù Cristo. La testimonianza del loro martirio è più eloquente di ogni parola: l’unità viene dalla Croce del Signore» (XVI Assemblea sinodale, Documento finale, n. 23). Possa il sangue di tanti testimoni avvicinare il giorno beato in cui berremo allo stesso calice di salvezza!

Carissimi, un bambino pakistano, Abish Masih, ucciso in un attentato contro la Chiesa cattolica, aveva scritto sul proprio quaderno: «Making the world a better place», «rendere il mondo un posto migliore». Il sogno di questo bambino ci sproni a testimoniare con coraggio la nostra fede, per essere insieme lievito di un’umanità pacifica e fraterna.

GIUBILEO DELLA CONSOLAZIONE

VEGLIA DI PREGHIERA PRESIEDUTA DAL SANTO PADRE LEONE XIV

Basilica di San Pietro, Lunedì 15 settembre 2025

 

«Consolate, consolate il mio popolo» (Is 40,1). È questo l’invito del profeta Isaia, che oggi giunge in modo impegnativo anche a noi: ci chiama a condividere la consolazione di Dio con tanti fratelli e sorelle che vivono situazioni di debolezza, di tristezza, di dolore. Per quanti sono nel pianto, nella disperazione, nella malattia e nel lutto risuona chiaro e forte l’annuncio profetico della volontà del Signore di porre termine alla sofferenza e cambiarla in gioia. In questo senso, vorrei ringraziare di nuovo le due persone che hanno dato la loro testimonianza. Si può trasformare tutto il dolore con la grazia di Gesù Cristo. Grazie! Questa Parola compassionevole, fattasi carne in Cristo, è il buon samaritano di cui ci ha parlato il Vangelo: è Lui che lenisce le nostre ferite, è Lui che si prende cura di noi. Nel momento del buio, anche contro ogni evidenza, Dio non ci lascia soli; anzi, proprio in questi frangenti siamo chiamati più che mai a sperare nella sua vicinanza di Salvatore che non abbandona mai.

Cerchiamo chi ci consoli e spesso non lo troviamo. Talvolta ci diventa persino insopportabile la voce di quanti, con sincerità, intendono partecipare al nostro dolore. È vero, ci sono situazioni in cui le parole non servono e diventano quasi superflue. In questi momenti rimangono, forse, solo le lacrime del pianto, se pure queste non si sono esaurite. Papa Francesco ricordava le lacrime di Maria Maddalena, disorientata e sola, presso il sepolcro vuoto di Gesù. «Piange semplicemente – diceva –. Vedete, alle volte nella nostra vita gli occhiali per vedere Gesù sono le lacrime. C’è un momento nella nostra vita in cui solo le lacrime ci preparano a vedere Gesù. E quale è il messaggio di questa donna? “Ho visto il Signore”». [1]

Care sorelle e cari fratelli, le lacrime sono un linguaggio, che esprime sentimenti profondi del cuore ferito. Le lacrime sono un grido muto che implora compassione e conforto. Ma prima ancora sono liberazione e purificazione degli occhi, del sentire, del pensare. Non bisogna vergognarsi di piangere; è un modo per esprimere la nostra tristezza e il bisogno di un mondo nuovo; è un linguaggio che parla della nostra umanità debole e messa alla prova, ma chiamata alla gioia.

Dove c’è il dolore sorge inevitabile l’interrogativo: perché tutto questo male? Da dove proviene? Perché è dovuto capitare proprio a me? Nelle sue Confessioni, Sant’Agostino scrive: «Cercavo l’origine del male … qual è la sua radice, quale il suo seme?… Se Dio che è buono ha creato buone tutte le cose, allora da dove ha origine il male?… Tali erano i pensieri che io manipolavo nel mio misero cuore … Tuttavia, salda e stabile rimaneva nel mio cuore la fede nella Chiesa cattolica del suo Cristo, nostro Signore e Salvatore; fede che non intendevo abbandonare, benché su molti punti fosse vaga e fluttuante» (VII, 5).

Il passaggio dalle domande alla fede è quello a cui ci educa la Sacra Scrittura. Vi sono infatti domande che ci ripiegano su noi stessi e ci dividono interiormente e dalla realtà. Vi sono pensieri da cui non può nascere nulla. Se ci isolano e ci disperano, umiliano anche l’intelligenza. Meglio, come nei Salmi, che la domanda sia protesta, lamento, invocazione di quella giustizia e di quella pace che Dio ci ha promesso. Allora gettiamo un ponte verso il cielo, anche quando sembra muto. Nella Chiesa cerchiamo il cielo aperto, che è Gesù, il ponte di Dio verso di noi. Esiste una consolazione che allora ci raggiunge, quando “salda e stabile” rimane quella fede che ci pare “vaga e fluttuante” come una barca nella tempesta.

Dove c’è il male, là dobbiamo ricercare il conforto e la consolazione che lo vincono e non gli danno tregua. Nella Chiesa significa: mai da soli. Poggiare il capo su una spalla che ti consola, che piange con te e ti dà forza, è una medicina di cui nessuno può privarsi perché è il segno dell’amore. Dove profondo è il dolore, ancora più forte dev’essere la speranza che nasce dalla comunione. E questa speranza non delude.

Le testimonianze che abbiamo ascoltato trasmettono questa certezza: che il dolore non deve generare violenza; che la violenza non è l’ultima parola, perché viene vinta dall’amore che sa perdonare. Quale liberazione più grande possiamo sperare di raggiungere, se non quella che proviene dal perdono, che per grazia può aprire il cuore nonostante abbia subito ogni sorta di brutalità? La violenza patita non può essere cancellata, ma il perdono concesso a quanti l’hanno generata è un’anticipazione sulla terra del Regno di Dio, è il frutto della sua azione che pone termine al male e stabilisce la giustizia. La redenzione è misericordia e può rendere migliore il nostro futuro, mentre ancora attendiamo il ritorno del Signore. Lui solo asciugherà ogni lacrima e aprirà il libro della storia consentendoci di leggere le pagine che oggi non possiamo giustificare né comprendere (cfr Ap 5).

Anche a voi, fratelli e sorelle che avete subito l’ingiustizia e la violenza dell’abuso, Maria ripete oggi: “Io sono tua madre”. E il Signore, nel segreto del cuore, vi dice: “Tu sei mio figlio, tu sei mia figlia”. Nessuno può togliere questo dono personale offerto a ciascuno. E la Chiesa, di cui alcuni membri purtroppo vi hanno ferito, oggi si inginocchia insieme a voi davanti alla Madre. Che tutti possiamo imparare da lei a custodire i più piccoli e fragili con tenerezza! Che impariamo ad ascoltare le vostre ferite, a camminare insieme. Che possiamo ricevere da Maria Addolorata la forza di riconoscere che la vita non è definita solo dal male patito, ma dall’amore di Dio che mai ci abbandona e che guida tutta la Chiesa.

Le parole di San Paolo, poi, ci suggeriscono che, quando si riceve consolazione da Dio, allora si diventa capaci di offrire consolazione anche agli altri: «Egli – scrive l’Apostolo – ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio» (2Cor 1,4). I segreti del nostro cuore non sono nascosti a Dio: non dobbiamo impedirgli di consolarci, illudendoci che possiamo contare solo sulle nostre forze.

Sorelle e fratelli, al termine di questa Veglia vi verrà offerto un piccolo dono: l’Agnus Dei. È un segno che potremo portare nelle nostre case per ricordare che il mistero di Gesù, della sua morte e risurrezione è la vittoria del bene sul male. Lui è l’Agnello che dona lo Spirito Santo Consolatore, il quale non ci lascia mai, ci conforta nelle necessità e ci fortifica con la sua grazia (cfr At 15,31).

Quanti amiamo e ci sono stati strappati da sorella morte non vanno perduti e non spariscono nel nulla. La loro vita appartiene al Signore che, come Buon Pastore, li abbraccia e li tiene stretti a sé, e ce li restituirà un giorno perché possiamo godere una felicità eterna e condivisa.

Carissimi, come c’è il dolore personale, così, anche ai nostri giorni, esiste il dolore collettivo di intere popolazioni che, schiacciate dal peso della violenza, della fame e della guerra, implorano pace. È un grido immenso, che impegna noi a pregare e agire, perché cessi ogni violenza e chi soffre possa ritrovare serenità; e impegna prima di tutto Dio, il cui cuore freme di compassione, a venire nel suo Regno. La vera consolazione che dobbiamo essere capaci di trasmettere è quella di mostrare che la pace è possibile, e che germoglia in ognuno di noi se non la soffochiamo. I responsabili delle Nazioni ascoltino in modo particolare il grido di tanti bambini innocenti, per garantire loro un futuro che li protegga e li consoli.

In mezzo a tanta prepotenza, ne siamo certi, Dio non farà mancare cuori e mani che portano aiuto e consolazione, operatori di pace capaci di rincuorare coloro che sono nel dolore e nella tristezza. E insieme, come Gesù ci ha insegnato, invocheremo con più verità: “Venga il tuo Regno!”.

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[1] Francesco, Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Marthae (2 aprile 2013).

 

 

DISCORSI SETTEMBRE

DISCORSO DEL SANTO PADRE LEONE XIV
AL COLLEGIO DEGLI SCRITTORI DE “LA CIVILTÀ CATTOLICA”

Sala del Concistoro, Giovedì, 25 settembre 2025

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La pace sia con voi! (…)

Potremmo individuare tre aree significative del vostro operato su cui soffermarci: educare le persone a un impegno intelligente e fattivo nel mondo, farsi voce degli ultimi, essere annunciatori di speranza. (…)

Papa Francesco ha scritto che, nell’annuncio del Vangelo, «c’è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 195). Farsi voce dei piccoli è dunque un aspetto fondamentale della vita e della missione di ogni cristiano. Esso richiede prima di tutto una grande e umile capacità di ascoltare, di stare vicino a chi soffre, per riconoscere nel suo grido silenzioso quello del Crocifisso che dice: «Ho sete» (Gv 19,28). Solo così è possibile farsi eco fedele e profetica della voce di chi è nel bisogno, spezzando ogni cerchio di isolamento, di solitudine e di sordità.

E veniamo al terzo punto: essere messaggeri di speranza. Si tratta di opporsi all’indifferentismo di chi rimane insensibile agli altri e al loro legittimo bisogno di futuro, come pure di vincere la delusione di chi non crede più nella possibilità di intraprendere nuove vie, ma soprattutto di ricordare e annunciare che per noi la speranza ultima è Cristo, nostra via (cfr Gv 14,6). In Lui e con Lui, sul nostro cammino non ci sono più vicoli ciechi, né realtà che, per quanto dure e complicate, possano fermarci e impedirci di amare con fiducia Dio e i fratelli. Come ha scritto Benedetto XVI, al di là di successi e fallimenti, io so che «la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’Amore» (Lett. enc. Spe salvi, 35), e perciò trovo ancora e sempre il coraggio di operare e di proseguire (cfr ibid.). È un messaggio importante questo, specialmente in un mondo sempre più ripiegato su sé stesso. (…)

 

 

 

ANGELUS  SETTEMBRE

 

FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA CROCE

Piazza San Pietro, Domenica 14 settembre 2025

Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Oggi la Chiesa celebra la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, in cui ricorda il ritrovamento del legno della Croce da parte di Sant’Elena, a Gerusalemme, nel IV secolo, e la restituzione della preziosa Reliquia alla Città santa, ad opera dell’Imperatore Eraclio.

Ma cosa vuol dire per noi, oggi, celebrare questa Festa? Ci aiuta a comprenderlo il Vangelo che la liturgia ci propone (cfr Gv 3,13-17). La scena si svolge di notte: Nicodemo, uno dei capi dei Giudei, persona retta e dalla mente aperta (cfr Gv 7,50-51), viene a incontrare Gesù. Ha bisogno di luce, di guida: cerca Dio e chiede aiuto al Maestro di Nazaret, perché in Lui riconosce un profeta, un uomo che compie segni straordinari.

Il Signore lo accoglie, lo ascolta, e alla fine gli rivela che il Figlio dell’uomo dev’essere innalzato, «perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,15), e aggiunge: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (cfr v. 16). Nicodemo, che forse al momento non comprende appieno il senso di queste parole, lo potrà fare certamente quando, dopo la crocifissione, aiuterà a seppellire il corpo del Salvatore (cfr Gv 19,39): capirà che Dio, per redimere gli uomini, si è fatto uomo ed è morto sulla croce.

Gesù parla di questo a Nicodemo, richiamando un episodio dell’Antico Testamento (cfr Nm 21,4-9), quando nel deserto gli Israeliti, assaliti da serpenti velenosi, si salvavano guardando il serpente di bronzo che Mosè, obbedendo al comando di Dio, aveva fatto e posto sopra un’asta.

Dio ci ha salvati mostrandosi a noi, offrendosi come nostro compagno, maestro, medico, amico, fino a farsi per noi Pane spezzato nell’Eucaristia. E per compiere quest’opera si è servito di uno degli strumenti di morte più crudeli che l’uomo abbia mai inventato: la croce.

Per questo oggi noi ne celebriamo l’“esaltazione”: per l’amore immenso con cui Dio, abbracciandola per la nostra salvezza, l’ha trasformata da mezzo di morte a strumento di vita, insegnandoci che niente può separarci da Lui (cfr Rm 8,35-39) e che la sua carità è più grande del nostro stesso peccato (cfr Francesco, Catechesi, 30 marzo 2016).

Chiediamo allora, per intercessione di Maria, la Madre presente al Calvario vicino al suo Figlio, che anche in noi si radichi e cresca il suo amore che salva, e che anche noi sappiamo donarci gli uni agli altri, come Lui si è donato tutto a tutti.