Termina oggi il Congresso internazionale “Palliative Care: everywhere & by Everyone. Palliative care in every region. Palliative care in every religion or belief”, in corso a Roma e organizzato dalla Pontificia Accademia per la Vita. Due giorni di intensi appuntamenti per affrontate diverse e importanti tematiche, quali il contributo delle cure palliative alla medicina, all’assistenza sanitaria e alla società, la diffusione delle cure palliative, l’impatto delle diverse fedi religiose e prospettive spirituali sulla cura del morente, le implicazioni politiche ed economiche delle cure palliative.
«Le cure palliative sono una forma privilegiata e disinteressata di carità cristiana nel momento ultimo della vita e in nessun caso vanno confuse con l’eutanasia». Così, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha presentato il Congresso presso l’Istituto Augustinianum. L’incontro scientifico, a cui partecipano 400 specialisti da 38 paesi del mondo, è parte integrante di un progetto dell’Accademia per diffondere una cultura dell’attenzione al malato terminale affinché nessuno debba morire in solitudine.
Le cure palliative, ha spiegato mons. Paglia, non sono da confondere con l’eutanasia: «E’ importante sottolinearlo: la differenza è netta, le cure palliative accompagnano, l’eutanasia interrompe. Questo è il discrimine assolutamente netto».
Un tema importante sottolineato anche dal Segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin, in un messaggio inviato a nome di papa Francesco a mons. Vincenzo Paglia: «Si tratta di argomenti che riguardano i momenti conclusivi della nostra vita terrena e che mettono l’essere umano a confronto con un limite che appare insuperabile per la libertà, suscitando a volte ribellione e angoscia. Per questo nella società odierna si cerca in molti modi di evitarlo e di rimuoverlo, trascurando di ascoltare l’ispirata indicazione del Salmo: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” (89,12). Ci priviamo così della ricchezza che proprio nella finitezza si nasconde e di una occasione per maturare un modo più sensato di vivere, sul piano sia personale sia sociale. Le cure palliative, invece, non assecondano questa rinuncia alla sapienza della finitezza, ed è qui un ulteriore motivo dell’importanza di queste tematiche. Esse indicano infatti una riscoperta della vocazione più profonda della medicina, che consiste prima di tutto nel prendersi cura: il suo compito è di curare sempre, anche se non sempre è possibile guarire. Certamente l’impresa medica si basa sull’impegno instancabile di acquisire nuove conoscenze e di sconfiggere un numero sempre maggiore di malattie. Ma le cure palliative attestano, all’interno della pratica clinica, la consapevolezza che il limite richiede non solo di essere combattuto e spostato, ma anche riconosciuto e accettato. E questo significa non abbandonare le persone malate, ma anzi stare loro vicino e accompagnarle nella difficile prova che si fa presente alla conclusione della vita. Quando tutte le risorse del “fare” sembrano esaurite, proprio allora emerge l’aspetto più importante nelle relazioni umane che è quello dell’“essere”: essere presenti, essere vicini, essere accoglienti. Questo comporta anche il condividere l’impotenza di chi giunge al punto estremo della vita. Allora il limite può cambiare significato: non più luogo di separazione e di solitudine, ma occasione di incontro e di comunione».
Parolin prosegue nelle lettera ad affrontare il tema della terapia del dolore: «Già Papa Pio XII aveva legittimato con chiarezza, distinguendola dall’eutanasia, la somministrazione di analgesici per alleviare dolori insopportabili non altrimenti trattabili, anche qualora, nella fase di morte imminente, fossero causa di un accorciamento della vita (cfr Acta Apostolicae Sedis XLIX [1957],129-147). Oggi, dopo molti anni di ricerca, l’accorciamento della vita non è più un effetto collaterale frequente, ma lo stesso interrogativo si ripropone con farmaci nuovi, che agiscono sullo stato di coscienza e rendono possibili diverse forme di sedazione. Il criterio etico non cambia, ma l’impiego di queste procedure richiede sempre un attento discernimento e molta prudenza. Esse sono infatti assai impegnative sia per gli ammalati, sia per i familiari, sia per i curanti: con la sedazione, soprattutto quando protratta e profonda, viene annullata quella dimensione relazionale e comunicativa che abbiamo visto essere cruciale nell’accompagnamento delle cure palliative. Essa risulta quindi sempre almeno in parte insoddisfacente, sicché va considerata come estremo rimedio, dopo aver esaminato e chiarito con attenzione le indicazioni.
La complessità e la delicatezza dei temi presenti nelle cure palliative chiedono di continuare la riflessione e di diffonderne la pratica per facilitarvi l’accesso: un compito in cui i credenti possono trovare compagni di strada in molte persone di buona volontà. Ed è significativo che in questa prospettiva siano presenti al vostro incontro rappresentanti di diverse religioni e di diverse culture in uno sforzo di approfondimento e in un impegno condiviso. Anche nella formazione degli operatori sanitari, di chi ha responsabilità pubbliche e nell’intera società è importante che questi sforzi siano portati avanti insieme».
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