Dopo aver allenato ad alti livelli per anni, votato allenatore dell’anno in serie A nel 1982, e divenuto campione del mondo alla guida della Nazionale militare nel 1990, a 43 anni si rende conto di essere stanco e di aver bisogno di nuovi stimoli. «Mi resi conto di non riuscire più ad insegnare, che dovevo ogni giorno lottare con ragazzi che non vivevano la palestra come un gioco ma come un lavoro e che ascoltavano solo se stessi e i procuratori. E ho detto basta».
Ed ecco, di colpo, l’occasione. Nel 1994 Emma Lamacchia, responsabile dell’associazione La Lucciola Onlus di Modena, lo invita a vedere la loro realtà, un centro di terapia integrata per ragazzi disabili.
«Incontrai questi giovani, praticavano lo sport come terapia – spiega Calamai – ma si trattava di sport individuali come nuoto ed equitazione. Chiesi: avete mai pensato di provare con sport di gruppo? La dottoressa Lamacchia mi guardò un po’ perplessa, poi rispose: no, ma potremmo tentare. Lei insegna basket, le andrebbe di provarci? Accettai, più con l’istinto che con la testa».
Tutto iniziò così: nel 1995 con 17 ragazzi con difficoltà psichiche. «C’era chi si agitava per prendere la palla, chi si proteggeva la faccia per evitare di essere colpito, chi guardava il pallone con finta indifferenza. E non sapendo bene come comportarmi, feci quello che sapevo fare meglio: li allenai. A modo mio. Correndo, saltando, urlando, incitando. Arrabbiandomi. Non conoscevo altri sistemi».
Che legame può esserci con il nostro Padre Fondatore? Possiamo dire che Calamai “adotta” il “sistema” di Monsignore. Responsabilizza i ragazzi, li tratta prima di tutto come persone e li sgrida se, nei limiti ovvi delle loro possibilità, non danno il massimo. Si legge sul Corriere: «La prova provata arriva quando Junior, ragazzo introverso e incapace di esprimersi in pubblico, si presenta per la prima volta ad allenarsi accompagnato dalla madre. Calamai lo incalza, lo sprona, lo sgrida come un qualsiasi altro giocatore, e la madre osserva allibita. A fine allenamento prende il figlio dicendogli “tu qui non ci vieni più”. Junior la blocca: “Mamma, non hai capito niente, è solo per far rispettare le regole”. Junior resterà per lungo tempo uno dei giocatori di Calamai».
Oggi sono quasi 1.000 i ragazzi nei 30 centri del Progetto Over Limits, realizzato da Calamai, che punta a sfruttare la capacità di comunicazione insita nella palla per mettere in relazione persone alle prese con gravi problematiche, chiuse in un mondo di paura, solitudine e dolore.
«La filosofia che ispira e guida questo programma di lavoro – si legge sul sito Over Limits – è quella dell’accoglienza e dell’accettazione. Nel gioco e dal gioco non viene escluso nessuno. Giocano insieme il ragazzo autistico che ha impiegato 5 anni a toccare per la prima volta la palla, il ragazzo con un lieve ritardo abile e capace e il giocatore normodotato, generoso e disponibile, in una esperienza che si pone l’obbiettivo primario della vera integrazione. Riescono a farlo perché condividono un progetto educativo che unisce e non divide, che fa dell’accettazione dell’altro un principio e dell’attesa di ognuno una regola. La frase-manifesto che unisce tutti i ragazzi disabili e non che giocano nelle squadre Over Limits, al di là delle diverse problematiche, è : “Se io ci sono riuscito, riuscirai anche tu”. Questo modo di lavorare e i principi ed i valori che lo ispirano rendono diverso questo progetto di gioco con la disabilità da qualunque altra forma di attività sportiva per ragazzi disabili, più comunemente attuate in Italia e non solo».
Tra gli insegnamenti di Calamai, uno sembra arrivare dritto dal beato Luigi Novarese: “Ognuno di noi ha più qualità che limiti, basta vedere le prime piuttosto che i secondi”.