Due importanti testi su malattia e sofferenza tratti dall’Esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici di San Giovanni Paolo II su vocazione e missione dei laici nella chiesa e nel mondo (nn. 53-54) – 30 dicembre 1988.

 

Malati e sofferenti (n. 53)

 

L’uomo è chiamato alla gioia ma fa quotidiana esperienza di tantissime forme di sofferenza e di dolore. Agli uomini e alle donne colpiti dalle più varie forme di sofferenza e di dolore i Padri sinodali si sono rivolti nel loro finale Messaggio con queste parole: «Voi abbandonati ed emarginati dalla nostra società consumistica; voi malati, handicappati, poveri, affamati, emigranti, profughi, prigionieri, disoccupati, anziani, bambini abbandonati e persone sole; voi, vittime della guerra e di ogni violenza emananti dalla nostra società permissiva.

La Chiesa partecipa alla vostra sofferenza conducente al Signore, che vi associa alla sua Passione redentrice e vi fa vivere alla luce della sua Redenzione. Contiamo su di voi per insegnare al mondo intero che cosa è l’amore. Faremo tutto il possibile perché troviate il posto di cui avete diritto nella società e nella Chiesa» (198).

Nel contesto di un mondo sconfinato come quello della sofferenza umana, rivolgiamo ora l’attenzione a quanti sono colpiti dalla malattia nelle sue diverse forme: i malati, infatti, sono l’espressione più frequente e più comune del soffrire umano.

A tutti e a ciascuno è rivolto l’appello del Signore: anche i malati sono mandati come operai nella sua vigna. Il peso, che affatica le membra del corpo e scuote la serenità dell’anima, lungi dal distoglierli dal lavorare nella vigna, li chiama a vivere la loro vocazione umana e cristiana ed a partecipare alla crescita del Regno di Dio in modalità nuove, anche più preziose. Le parole dell’apostolo Paolo devono divenire il loro programma e, prima ancora, sono luce che fa splendere ai loro occhi il significato di grazia della loro stessa situazione: «Completo quello che manca ai patimenti di Cristo nella mia carne, in favore del suo corpo, che è la Chiesa» (Col 1, 24).

Proprio facendo questa scoperta, l’apostolo è approdato alla gioia: «Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi» (Col 1, 24). Similmente molti malati possono diventare portatori della «gioia dello Spirito Santo in molte tribolazioni» (1 Tess 1, 6) ed essere testimoni della Risurrezione di Gesù. Come ha espresso un handicappato nel suo intervento in aula sinodale, «è di grande importanza porre in luce il fatto che i cristiani che vivono in situazioni di malattia, di dolore e di vecchiaia, non sono invitati da Dio soltanto ad unire il proprio dolore con la Passione di Cristo, ma anche ad accogliere già ora in se stessi e a trasmettere agli altri la forza del rinnovamento e la gioia di Cristo risuscitato (cf. 2 Cor 4, 10-11; 1 Pt 4, 13; Rm 8, 18 ss.)» (199). Da parte sua – come si legge nella Lettera Apostolica Salvifici doloris – «la Chiesa, che nasce dal mistero della redenzione nella Croce di Cristo, è tenuta a cercare l’incontro con l’uomo in modo particolare sulla via della sofferenza. In un tale incontro l’uomo “diventa la via della Chiesa”, ed è, questa, una delle vie più importanti» (200). Ora l’uomo sofferente è via della Chiesa perché egli è, anzitutto, via di Cristo stesso, il buon Samaritano che «non passa oltre», ma «ne ha compassione, si fa vicino (…) gli fascia le ferite (…) si prende cura di lui» (Lc 10, 32-34).

La comunità cristiana ha ritrascritto, di secolo in secolo nell’immensa moltitudine delle persone malate e sofferenti, la parabola evangelica del buon Samaritano, rivelando e comunicando l’amore di guarigione e di consolazione di Gesù Cristo.

Ciò è avvenuto mediante la testimonianza della vita religiosa consacrata al servizio degli ammalati e mediante l’infaticabile impegno di tutti gli operatori sanitari. Oggi, anche negli stessi ospedali e case di cura cattolici si fa sempre più numerosa, e talvolta anche totale ed esclusiva, la presenza dei fedeli laici, uomini e donne: proprio loro, medici, infermieri, altri operatori della salute, volontari, sono chiamati ad essere l’immagine viva di Cristo e della sua Chiesa nell’amore verso i malati e i sofferenti.

 

Azione pastorale rinnovata (n. 54)

 

E’ necessario che questa preziosissima eredità, che la Chiesa ha ricevuto da Gesù Cristo «medico di carne e di spirito» (201), non solo non venga mai meno, ma sia sempre più valorizzata e arricchita attraverso una ripresa e un rilancio deciso di un’azione pastorale per e con i malati e i sofferenti. Dev’essere un’azione capace di sostenere e di promuovere attenzione, vicinanza, presenza, ascolto, dialogo, condivisione e aiuto concreto verso l’uomo nei momenti nei quali, a causa della malattia e della sofferenza, sono messe a dura prova non solo la sua fiducia nella vita ma anche la sua stessa fede in Dio e nel suo amore di Padre. Questo rilancio pastorale ha la sua espressione più significativa nella celebrazione sacramentale con e per gli ammalati, come fortezza nel dolore e nella debolezza, come speranza nella disperazione, come luogo d’incontro e di festa.

Uno dei fondamentali obiettivi di questa rinnovata e intensificata azione pastorale, che non può non coinvolgere e in modo coordinato tutte le componenti della comunità ecclesiale, è di considerare il malato, il portatore di handicap, il sofferente non semplicemente come termine dell’amore e del servizio della Chiesa, bensì come soggetto attivo e responsabile dell’opera di evangelizzazione e di salvezza. In questa prospettiva la Chiesa ha una buona novella da far risuonare all’interno di società e di culture che, avendo smarrito il senso del soffrire umano, «censurano» ogni discorso su tale dura realtà della vita. E la buona novella sta nell’annuncio che il soffrire può avere anche un significato positivo per l’uomo e per la stessa società, chiamato com’è a divenire una forma di partecipazione alla sofferenza salvifica di Cristo e alla sua gioia di risorto, e pertanto una forza di santificazione e di edificazione della Chiesa.

L’annuncio di questa buona novella diventa credibile allorquando non risuona semplicemente sulle labbra, ma passa attraverso la testimonianza della vita, sia di tutti coloro che curano con amore i malati, gli handicappati e i sofferenti, sia di questi stessi, resi sempre più coscienti e responsabili del loro posto e del loro compito nella Chiesa e per la Chiesa.

Di grande utilità perché «la civiltà dell’amore» possa fiorire e fruttificare nell’immenso mondo del dolore umano, potrà essere la rinnovata meditazione della Lettera Apostolica Salvifici doloris, di cui ricordiamo ora le righe conclusive: «Occorre pertanto, che sotto la Croce del Calvario idealmente convengano tutti i sofferenti che credono in Cristo e, particolarmente, coloro che soffrono a causa della loro fede in lui Crocifisso e Risorto, affinché l’offerta delle loro sofferenze affretti il compimento della preghiera dello stesso Salvatore per l’unità di tutti (cfr. Gv 17, 11. 21-22).

Là pure convengano gli uomini di buona volontà, perché sulla Croce sta il “Redentore dell’uomo”, l’Uomo dei dolori, che in sé ha assunto le sofferenze fisiche e morali degli uomini di tutti i tempi, affinché nell’amore possano trovare il senso salvifico del loro dolore e risposte valide a tutti i loro interrogativi. Insieme con Maria, Madre di Cristo, che stava sotto la Croce (cfr. Gv 19, 25), ci fermiamo accanto a tutte le croci dell’uomo d’oggi (…). E chiediamo a tutti voi, che soffrite, di sostenerci. Proprio a voi, che siete deboli, chiediamo che diventiate una sorgente di forza per la Chiesa e per l’umanità. Nel terribile combattimento tra le forze del bene e del male, di cui ci offre spettacolo il nostro mondo contemporaneo, vinca la vostra sofferenza in unione con la Croce di Cristo!» (202).