Molto clamore mediatico ha suscitato la decisione di Fabiano Antoniani in arte Fabo, DJ di professione di porre fine alla sua vita ricorrendo al suicidio assistito in una struttura svizzera. Si è parlato ancora una volta di morte “in esilio”, si sono scatenati dibattiti sui social in cui etica, emozioni e polemiche hanno fatto da sfondo ad un episodio che si è trasformato in breve tempo nella solita “babele mediatica” dove troppi giudizi e troppe parole sono state dispensate con troppa facilità, sia dai fautori del suicidio assistito che da coloro decisamente contrari a questa metodica per porre fine alla vita. Forse un po’ più di silenzio avrebbe aiutato a riflettere meglio su un episodio (non è certamente il primo e l’unico qui in Italia) in cui il dolore, l’afflizione, il ritenere la vita un peso insopportabile raggiungono vertici difficilmente comprensibili, in cui l’umana razionalità fa fatica ad orientarsi nei meandri di quella complessa componente umana chiamata anima (o psiche per chi non si identifica con un’ottica spiritualista). Come osservava lo psicofisiologo Riccardo Venturini, il dolore esige risposte e non consente rinvii: la vera questione di vita o di morte rimane sempre la lotta per dare senso alla sofferenza, per mettere una cornice al quadro del negativo, per contenerlo, circoscriverlo, dominarlo: ma il contenuto spesso preme, minaccia di debordare e dilagare in tragedia; la cornice deve venire allargata, per comprenderlo, ancora e di nuovo.
Fabo in uno scritto considerato il suo testamento così si esprimeva qualche giorno prima di raggiungere la Svizzera e porre fine alla sua vita: “Preferisco stare solo ora che non poter vivere come prima. Vivo oggi a casa di mia madre a Milano con una persona che ci aiuta e la mia fidanzata che passa più tempo possibile con me. Mi portano fuori ma spesso non ne ho voglia. Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione non trovando più il senso della mia vita ora. Fermamente deciso trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia”. Parole assai difficili da metabolizzare…
Scriveva il teologo morale francese Xavier Thévenot riguardo il divario che esiste tra teoria e pratica della sofferenza: “Discorsi e sofferenza non vanno d’accordo. La sofferenza è l’improvvisa apparizione dell’inatteso: è sempre differente dall’idea che me ne ero fatto. E’ anche l’invasione nella mia personalità di una realtà estranea, così estranea che non trovo le parole per descriverla”.
Ed ecco riproporsi alla nostra riflessione quanto è accaduto a Fabo, in una struttura svizzera, dove, quest’uomo di 39 anni ha deciso di porre fine alla sua esistenza dopo che un grave incidente lo aveva reso tetra paretico e quasi cieco. Una riflessione che esige un consapevole silenzio, dove nessuno può arrogarsi il diritto di giudicare le scelte altrui, soprattutto se queste sono dettate da un’ingestibile disperazione. Il rimanere da soli di fronte al proprio “mal di vivere”, il non riuscire a sanare in alcun modo le ferite dell’anima prodotte dall’improvvisa perdita della propria autonomia, da situazioni di vita ordinaria percepite pesanti e senza vie d’uscita, da un dolore cronico che accompagna le ore del giorno svilendo sempre di più la quotidianità e così via sono corde che, se tirate continuamente, possono condurre un essere umano su quel punto di non ritorno in cui la vita diventa irrimediabilmente un peso insostenibile. Nel caso specifico di Fabo, i devastanti postumi di un terribile incidente stradale hanno rappresentato quelle scintille che hanno scatenato il rifiuto deciso e consapevole del suo proseguire a vivere.
Sono situazioni che meritano il massimo rispetto perché nessuno di noi possiede un bilancino sul quale poter misurare il dolore altrui. Il dolore, la sofferenza, sono esperienze soggettive ed ogni persona, proprio perché unica e irripetibile, può essere in grado o meno di sopportare la durezza di certi eventi, di saperli affrontare o rimanerne inesorabilmente schiacciato.
Riguardo a Fabo, particolarmente penosa è stato l’ovvia e scontata reazione dei media a questo dolorosissimo evento, i quali hanno come sempre sciorinato la loro parte di saggezza giusto il tempo di occupare Tv, giornali e social per qualche giorno, per poi archiviare il caso nel dimenticatoio collettivo.
In tutto ciò una cosa è certa, almeno per coloro che credono in Dio e nella redenzione operata da Gesù. Senza una fede granitica, convinta, vissuta e consapevole, la dimensione del dolore, della sofferenza resta un assurdo sul quale prevale e prevarrà sempre impotenza e rassegnazione.
Resta il fatto che la vita rimane, comunque, un bene prezioso, anche se talvolta può apparire crudele, chiedendo di essere vinta più che vissuta.